mercoledì 29 maggio 2013

L'alcolista

L'Alcolista: una stravolgente opera (quasi) autobiografica



"Voglio essere chiaro l'alcolista è solo un'opera di finzione". Jonathan Ames non usa giri di parole per descrivere "L'Alcolista", la sua prima avventura fumettistica scritta dallo stesso Ames, disegnata da Dean Haspiel e pubblicata da Vertigo.
La domanda che ci si pone prendendo per vere le parole di Ames a proposito di quest'opera è: chi è l'alcolista protagonista della vicenda? Si chiama Jonathan A. e ricorda molto da vicino lo stesso Ames. La storia raccontata non è una biografia dello scrittore, tuttavia Ames riprende alcuni ricordi della sua esistenza e li attribuisce al personaggio mischiandoli con altri avvenimenti del tutto inventati. Lo stile della narrazione è sicuramente biografico e più volte viene da chiedersi se gli eventi raccontati abbiamo un rapporto più o meno stretto con la reale vita dell'autore, ma tutto sommato, ai fini della lettura, rispondere a questo quesito non è poi così importante.
Il protagonista è uno scrittore alcolizzato e perennemente tormentato che ricorda alcuni momenti della sua vita. Si parte parte dall'adolescenza e dal primo contatto con l'alcol che si trasformerà ben presto in un rapporto continuo e distruttivo, vera costante di tutto il racconto. Gli anni della giovinezza sono caratterizzati, oltre che dall'abuso di alcolici, dal rapporto di amicizia con un ragazzo, Sal, il miglior amico di Jonathan che sfocerà, appena prima del college, in un rapporto sessuale tra i due. Questo fatto sconvolgerà Jonathan, aprendo le porte ad un tumulto interiore che lo condizionerà per sempre, sfasandone il rapporto con la sessualità e aprendo una complessa riflessione sull'amore e sull'amicizia.
In seguito si passa agli anni dell'università. Relazioni difficili con varie ragazze, eccessi continui, la morte dei genitori, l'amore per la scrittura e la letteratura, il dolcissimo rapporto con la zia e, come sempre, l'alcol, un sottofondo che sembra accompagnare il protagonista in ogni passo della sua esistenza fino all'età adulta.
L'equilibrio psichico di Jonathan è sempre in bilico, la sua vita è un continuo sali e scendi di emozioni, di stati di confusione, di momenti di euforia e di tristezza, di reazioni violente e periodi depressione. Il lettore è catapultato in un cosmo underground popolato da personaggi improbabili, prostitute e spacciatori, uomini distrutti, orge a base di droga, sbronze notturne, persone disperate che si addormentano nei bidoni della spazzatura, donne fatali, indecifrabili e sensuali, giovani malati di Aids, vecchi alcolizzati che rimpiangono la loro vita buttata.
L'alcolista è molto più che una vicenda personale, infatti intorno a Jonathan si muove tutto un mondo cittadino frenetico e irrequieto, molti personaggi entrano ed escono dalla scena, irrompono eventi stravolgenti come l'attentato dell'11 settembre che sconvolge il protagonista e il mondo intero o aneddoti simpatici come l'incontro con Clinton o con Monica Lewinski.
Sono presenti inoltre riflessioni sulla morte, sul senso delle relazioni, sulla ricerca dell'amore e di un sentimento profondo che possa dare senso alla vita. Jonathan è sempre alla ricerca di qualcosa che lo faccia stare attaccato alla realtà, che non lo costringa a perdersi nel mondo annebbiato dell'alcol dove sembra voler scappare per non soffrire, per non dover sopportare la pesantezza della vita. Esemplare, da questo punto di vista, è la tormentatissima storia d'amore con una ragazza più giovane di lui che lo abbandonerà e diventerà per lui una vera ossessione. Sarà una costante corsa per restare attaccato ad un pezzo di vita che si sbriciola irrimediabilmente e diventa a poco a poco solo uno spettro al di là del telefono; "se il telefono non squilla, sono io" si ripeterà più volte Jonathan aspettando una chiamata che non arriverà mai.
Lo stile letterario di Ames è puramente letterario, sono presenti moltissimi riferimenti a Fitzgerald, a Hemingway e a Kerouak che per un certo punto della vicenda diventerà un vero e proprio alter-ego del protagonista.
L'autore ci offre nel complesso una storia dura, malsana, allucinata e disturbante, che non pecca mai di retoricità e sentimentalismi gratuiti. L'eccesso è sempre presentato in modo sincero e cristallino, senza abbandonarsi all'artificiosità dello scandalo a tutti costi, mettendo in gioco in ogni momento le debolezze e la fragilità del protagonista. Ames lascia a noi il giudizio su questa dolorosa tempesta esistenziale che attesta in maniera lucida e inesorabile la vulnerabilità umana e il peso della vita sotto al quale è molto facile crollare.
I disegni di Haspiel sono precisi, minimali, spigolosi e graffianti sono sicuramente funzionali alla vicenda narrata e si integrano i modo perfetto con i testi di Ames.
In definitiva, L'alcolista, è un'opera poderosa e commovente, che riesce a toccare temi di grande importanza e delicatezza facendocene sentire il peso, ma nello stesso tempo condendoli con un alone di perenne sarcastica ironia. Sicuramente una graphic novel da leggere e rileggere, un vero capolavoro.

sabato 25 maggio 2013

The Following

The Following





"Un crime drama dove il bene è rappresentato come incerto e segnato dal passato e il male come intelligente e profondamente depravato"; così il quotidiano statunitense USA Today presenta la serie tv The Following trasmessa su Fox a partire dal 21 Gennaio 2013. A mio parere non potrebbero esserci parole più azzeccate per fornire un'idea sintetica dell'atmosfera che pervade il telefilm. Ci si trova immersi in una situazione reale, plausibile ed al tempo stesso così difficile da accettare come possibilità. 
Un'ex agente del FBI, Ryan Hardy (Kevin Bacon), ritorna in attività per seguire il caso di evasione di un serial killer, Joe Carroll (James Purefoy), arrestato 9 anni prima dallo stesso Hardy. Questo incipit potrebbe sembrare l'inizio di una saga tipica che vede un serial killer evaso da un lato ed il poliziotto buono dall'altra, ma The Following invece nasconde continui colpi di scena che coglieranno alla sprovvista lo spettatore già dalla prima puntata, fino al finale violento, sconcertante ed inaspettato. 




Personalmente alcuni elementi alla base della trama mi hanno colpito e credo risultino davvero interessanti. In primis il ruolo centrale della letteratura. Joe Carroll è un ex insegnate universitario di letteratura, uno scrittore decisamente scadente ed un appassionato di Edgar Allan Poe e sono proprio gli scritti di Poe il tema attorno al quale sembra girare tutta la vicenda nelle battute iniziali. Sottolineo all'inizio poiché le opere di Poe, sopratutto quelle riguardanti la visione della donna, il ruolo degli occhi come elemento espressivo della personalità e l'interpretazione della morte come momento necessario e liberatorio, sono alla base del modus operandi di Joe Carroll e costituiscono il messaggio di coesione della setta che egli andrà a formare, ma non vengono mai ben approfonditi. Lo spettatore infatti entra in contatto con l'interpretazione personale di Poe ad opera del serial killer. Carroll si sente vicino a questo poeta maledetto non solo dal punto di vista letterario, ma anche personale a tal punto da considerarsi un suo "erede". Il resto delle citazioni sembrano diventare un mero segno distintivo degli adepti di Joe, il collante simbolico dei followers. Tuttavia, questi individui sono legati a questo aspetto letterario solo grazie alla connessione esistente tra Joe e Poe, mentre ciò che essi "venerano" ed "amano" è la figura stessa di Carroll, un personaggio che risulta un individuo carismatico, attrattivo e fortemente persuasivo. L'universo simbolico di Poe, caro a Joe, viene svuotando divenendo per i followers il simbolo di Carroll stesso. Il meccanismo messo in gioco ricorda sicuramente quello riguardante la svastica nazista, mutuata da Hitler dalla simbologia religiosa orientale e, probabilemente indicante il disco solare, ma diventata per il suoi adepti il simbolo del nazismo e del Fuhrer stesso.




Decisamente interessante è la dicotomia tra storia e realtà che caratterizza la trama. Lo spettatore si trova a guardare le scena da un punto di vista esterno, avendo la possibilità di vedere passato, presente e futuro contemporaneamente. I due protagonisti principali vivono in un presente ben definito, tuttavia hanno un passato comune e personale decisamente oscuro, il quale affiora frequentemente attraverso flash back che si collegano e fondono al presente. Gli esempi che si possono fare a riguardo sono molteplici, già nelle prime puntate la caccia presente all'omicida evaso viene presentata di pari passo con il momento decisivo delle indagini di Ryan su Carroll 9 anni prima. Ma più interessante a questo proposito è la scelta di far divenire i due personaggi anche i protagonisti del romanzo di Carroll. Egli scrive una storia in cui si pone come narratore onnisciente e per questo i fatti, le reazioni e perfino le sensazioni che egli descrive divengono realtà in un terribile gioco di cui Hardy e chi lo circonda sembra essere prigioniero. Per Joe la scrittura di questo romanzo diventa fondamentale. Egli vede nelle persone che lo circondano non degli esseri umani, ma i personaggi del suo racconto e questo lo fa sentire padrone della loro esistenza innalzandosi al ruolo di Dio e arrogandosi il diritto di plasmare la realtà. Per Carroll realtà e racconto non sono più divise. Egli, infatti, deve necessariamente scrivere ciò che accadrà e ciò che è successo facendoci partecipare ad un continuo rapporto di allineamento e chiasma tra il piano reale e quello narrativo. A questo proposito, ritengo sia fondamentale evidenziare come la caratterizzazione che  Joe fa dei personaggi sia la base di previsione del loro comportamento. Solo attraverso un accurato studio dell'individuo egli riesce a manipolarlo e prevederlo, anche se questo metodo non può considerare i colpi di testa o gli imprevisti. Sono questi elementi che fanno crollare il castello di carta costruito dal serial killer, egli pretende di determinare le azioni altrui senza considerare nè libero arbitrio nè gli impulsi più nascosti. In questo modo lo spettatore si trova a vedere il futuro attraverso il libro di Joe, che però può essere stravolto, in alcuni casi, dall'azione non convenzionale degli attori in gioco. 
Altro elemento sicuramente attuale e sconcertante riguarda la costituzione stessa della setta di Joe. Internet costituisce un elemento potentissimo per la propagazione delle informazioni oltre che per la costruzione e l'esaltazione di un personaggio. Il processo che incrimina Joe Carroll infatti viene dipinto come un caso mediatico, il quale ha permesso la formazione di una serie di veri e propri followers attorno a questo mostro. In tutta la storia i mass media hanno un ruolo fondamentale, poichè sono il mezzo attraverso il quale i membri comunicano. Un semplice comunicato stampa, diventa il segnale per l'inizio di una strage o l'attivazione di un rapimento ecc... Questo elemento, connotativo della serie (basti pensare al titolo), risulta molto attuale e decisamente contemporaneo. La sceneggiatura guarda al nostro mondo ed evidenzia uno scenario che per quanto spaventoso e disgustoso risulta possibile ed è forse questo che lo rende così terribile. Sicuramente il tutto è enfatizzato dalla violenza che pervade le immagini, una sola stagione si lascia dietro infatti una serie di morti decisamente notevole per 15 puntate. Personalmente talvolta ho trovato che l'utilizzo estremo della violenza abbia sminuito il carattere psicologico insito nella serie. Certo, questo elemento conferisce alla trama un maggiore movimento, una forte tensione ed azione, tenendo gli spettatori attaccati allo schermo, tuttavia l'intreccio, il rapporto tra i personaggi e la forte connotazione psicologica di questi ultimi costituisce a mio parere l'elemento che stacca questa seria rispetto ad un classico telefilm di azione, perciò non ho apprezzato particolarmente la scelta di farlo passare in secondo piano in numerosi episodi.
La caratterizzazzione dei personaggi, come accennavo, è sicuramente un elemento interessante. Essi sono molto umani, sbagliano e muoiono, il protagonista sembra un enti-eroe, è alcolizzato, testardo, spesso non riflette, agisce d'impulso, in modo stupido mettendo a rischio la sua vita e quella di chi gli è attorno, non è un principe azzurro che salva sempre la situazione, nasconde un lato oscuro ed è proprio per questo che ci sembra così reale. Questo aspetto di Ryan emerge in modo chiaro e lampante durante un confronto con Joe. Quest'ultimo, infatti, vuole poter dare più spessore al suo personaggio, quello dell'eroe, ma per fare ciò deve scavare nel profondo e nel passato di Hardy, facendo riemergere la morte del padre, ovvero la prima volta in cui Ryan ha visto morire qualcuno e la sua vendetta. Per Joe quindi il legame con l'eroe si rafforza, egli lo vede come un suo alter ego, segnato dalla morte esattamente come lui. 
Particolarmente interessante è la delineazione dei personaggi che ruotano attorno ai due protagonisti principali. In primo luogo il tema della famiglia è analizzato sotto differenti accezioni. "Famiglia" è infatti il termine con cui Joe chiama l'insieme dei suoi followers, ciò che invece viene definito dal FBI una setta. Sicuramente possiamo azzardare un parallelismo al caso reale della famiglia Manson, una setta fondata da Charles Manson negli anni '60. Anche in questo caso il collante era rappresentato dal leader stesso, musicista hippy a quel tempo e personaggio con un forte carisma. L'universo che ruota attorno a questi individui si basa sulla loro capacità di attrarre a sè persone che hanno vissuto esperienze particolari. Emblematico nella serie è il caso di Emma, una ragazza con problemi di autostima e famigliari, che trova in Joe tutto il suo mondo, il padre che avrebbe voluto e l'amante che cercava. Il rapporto che Carroll instaura con i suoi seguaci, sembra ad essi biunivoco, sono disposti a morire poichè si sentono parte di una famiglia, non di un'organizzazione. Lo scopo quindi non è una causa in cui credere, ma una persona da seguire. Dall'altro lato c'è la famiglia reale di Joe, Claire e Joey, la quale non ha nessuna intenzione di rientrare nella famiglia allargata dei followers, creando una duplicità che mette in evidenza come per il serial killer i due elementi non siano complanari e come gli scopi personali primeggino sull'incolumità del gruppo. Per Joe la priorità assoluta è il tentativo di riscrivere una storia che ricostruisca la sua vita prima della cattura. Egli vuole un ritorno allo status quo, che soddisfi la sua sete di vendetta nei confronti di colui che ha "distrutto" la sua vita. 
Quindi, con queste premesse, non voglio certo svelare di più sulla storia o sul finale e sicuramente mi sento di consigliare la visione di questa prima stagione esprimendo un certo dissenso nel progetto di continuare con una seconda. Infatti, gli ultimi 10 minuti del finale, che non rivelerò, mi sono sembrati una forzatura, inserita per poter andare avanti quando il racconto avrebbe avuto un degno epilogo ed una conclusione decisamente completa all'interno di questa unica stagione. Il rischio sarà quello di costruire un sequel che condividerà solo una parte dei personaggi e forzerà una storia già conclusa eccellentemente. 



giovedì 16 maggio 2013

La casa

LA CASA: Fede Alvarez gira un remake duro e di grande impatto visivo dell' horror cult che aveva lanciato un giovanissimo Sam Raimi nel 1981

Locandina del film

Nella produzione cinematografica attuale si ha frequentemente la tendenza a sfruttare il richiamo di personaggi, storie, libri e film cult molto popolari per assicurarsi a priori attraverso operazioni di remake, trasposizioni o rimpolpamenti, una buona dose di affluenza di pubblico in sala. Spesso e volentieri questa politica di marketing ha portato a risultati infimi dal punto di vista artistico, seguiti, successivamente, anche dal malcontento degli spettatori, che pur non tradendo le aspettative di affluenza in sala nei tempi vicini alla data di lancio, lasciano poi decadere il prodotto "per passa parola" subito nelle settimane successive.
Devo ammettere che quando fu annunciato che quest'anno ci sarebbe stato un remake di un classico dell'horror come "The Evil Dead" di Sam Raimi (1981), alla quale per altro sono molto affezionato, le perplessità non mi sono certo mancate. La prima sensazione che ho avuto è stata quella di una operazione commerciale di dubbio gusto e incerta utilità (per dirla con eufemismo, in realtà ho pensato "sarà la solita cavolata") e il mio scetticismo è continuato fino alla visione del film, che, lo dico già da ora, mi ha piacevolmente smentito.
Ebbene, forse anche grazie alla partecipazione dello stesso Raimi e di Bruce Campbell (che hanno prodotto e revisionato il progetto), questa volta il remake non è solamente riuscito, ma siamo di fronte ad un prodotto che è sicuramente uno dei migliori horror usciti di recente.
La trama, così come nell'originale di Raimi, è molto scarna e semplice. La giovane Mia raggiunge un cottage sperduto nel bosco, insieme a suo fratello David, la sua fidanzata e altri due amici, per disintossicarsi dalla droga. Il soggiorno notturno dei 5 ragazzi diventerà presto un incubo infernale, quando dopo aver scoperto una botola che apre su di una inquietante cantina piena di gatti morti appesi, trovano uno strano libro avvolto nel filo spinato. La lettura del libro da parte di uno dei ragazzi risveglierà un'arcana forza demoniaca che cercherà di uccidere i ragazzi impossessandosi di loro e rivoltandoli uno contro l'altro.
Il regista in questa pellicola rielabora il materiale Raiminiano in maniera molto originale, riuscendo a fare emergere nuove soluzioni tematiche e visive, dando così un significato artistico all'operazione di remake.
Per fare questo accantona qualsiasi vena ironica e parodica emergente soprattutto nel secondo e nel terzo episodio della saga di Raimi, in favore di un horror duro e senza compromessi. Non ci sono battute divertenti, non ci sono gag comiche, non ci sono scene melodrammatiche, non c'è salvezza, non c'è redenzione. Alvarez torna all'orrore puro aumentando esponenzialmente anche le scene di violenza, che beneficiano sicuramente, rispetto all'originale, di una resa più realistica che solo in qualche momento si lascia andare ad un'estetica tipicamente splatter da B-movie, preferendo un'immagine di dolore e di paura fatta di continue torture, ferite, attacchi rapidi, auto mutilazioni di grande impatto visivo e di grande creatività. Proprio in questo campo, il regista dimostra il suo valore, in quanto gioca con molti stereotipi del genere horror facendoli suoi, concatenandoli in maniera creativa, modificandoli, scegliendo bene il taglio delle inquadrature per dare un ulteriore senso di angoscia e terrore. Il film parte subito forte e non si ferma mai. Non ci sono cali di tensione, è un continuo susseguirsi di emozioni sanguigne e tensione viscerale che ripete magnificamente la dinamicità continua e delirante dell'originale, di cui sicuramente il livello costantemente alto della tensione era una delle caratteristiche principali e più riuscite. E' un vortice di atmosfera malata, che ci trascina sempre più in basso sull'orlo della follia senza un attimo di tregua.
Una particolare menzione va fatta, secondo me, per la potenza puramente visiva di certe scene. Il regista riesce a giocare con i colori, con le luci, con l'espressioni dei personaggi in modo tale da darci delle immagini di un potenza percettiva devastante, che si imprimono con forza negli occhi e nella mente dello spettatore. Spettacolare la scena finale dove Mia affronta l'ennesimo demone sotto un' inesorabile pioggia di sangue mentre la casa in fiamme brucia alle sue spalle, dandoci l'idea di un inferno tutto terreno che non può non sbalordirci con la sua magnificenza e nello stesso tempo catapultarci verso l'ennesimo picco di tensione.
In definitiva, questo film di Alvarez è, a mio parere, un bel film horror, soprattutto per l'originalità che il regista a dimostrato nella rielaborazione del lavoro di Raimi, per le soluzioni visive e per l'ottima tensione suscitata per tutta la durata del film. Un film horror come questo è un operazione coraggiosa, in quanto non è facile fare un prodotto con una sua propria identità partendo da un vero e proprio cult del genere, come The Evil Dead e mi sembra che la mano di Alvarez sia presente in maniera profonda e precisa. Inoltre risulta essere un'opera di grande sincerità e schiettezza, che riporta l'horror ad un paura tutta di pancia, ad una durezza e violenza estrema che smuove facendo leva sulla sua forza percettiva dell'immagine e ci coinvolge nell'azione per tutta la durata della pellicola.


lunedì 13 maggio 2013

Ramblin' Chaplin

Ramblin' Chaplin: un'anima variegata di progressive rock, folk, cantautorato e arie medievaleggianti.



La scorsa settimana noi del team di Philartdesign (siamo solo in due, ma la parola "Team" da un'aria più professionale) siamo stati gentilmente invitati da Riccardo, amico e collega designer di Valentina, a passare una serata in sala prove in compagnia sua e della band di cui fa parte: i Ramblin' Chaplin.
Chi sono i Ramblin' Chaplin? I Ramblin' Chaplin sono un'idea che nasce nel 2010 a Milano dall'incontro di due liceali, Tommaso e Domenico appassionati di musica e di poesia, che iniziano a scrivere testi e a musicarli per dare sfogo alle proprie idee e alla propria creatività. Il progetto inizialmente assume i toni classici del songwriting per poi evolversi in un'idea che inizierà a concepire un impianto musicale più propriamente rock, che porterà all'allargamento graduale del gruppo fino a comporlo dei cinque elementi stabili che lo compongono tutt'ora.
Del nucleo originario del gruppo, Tommaso diventa il cantante e l'autore dei testi, inoltre si iscrive a Filosofia per approfondire la sua cultura umanistica e, soprattutto, la sua passione per la corrente mistica. Domenico, chitarrista e compositore del gruppo, dopo una breve parentesi universitaria, decide di darsi completamente alla ricerca artistica musicale frequentando un corso di composizione in Civica e studiando informatica musicale in Università.
Gli altri altri tre elementi che fanno parte del gruppo sono: Riccardo Manzoni, Jacopo Viganò e Gabriele Segantini.
Il primo, Riccardo, suona pianoforte, tastiera, sintetizzatore e si occupa dell'effettistica computerizzata. E' un giovane produttore ed è da sempre nel mondo della musica con esperienza che spaziano dalla Classica alla Club Music.
Il secondo, Jacopo, è il bassista del gruppo, da anni studia jazz e ora con la sua esperienza da un impronta decisiva al sound del gruppo.
Infine, ma non per ultimo, troviamo Gabriele, batterista della band e professionista percussionista. Possiede una forte preparazione teorica e tecnica acquisita con i suoi studi al conservatorio di Milano, ora frequenta anche la Civica e con il tempo ha saputo unire alla perizia tecnica una espressività tutta personale.
Il nome "Ramblin Chaplin", si riferisce, ovviamente, prima di tutto, al grande attore comico inglese che con le sue opere cinematografiche e le sue colonne sonore ha saputo interpretare e aprire uno sguardo nuovo sul suo tempo. Il termine "Ramblin", che significa "vagabondo", denota invece un'area di significati legata sopratutto alla sfera dell'emarginazione sociale e al distacco dalle logiche e dalle meccaniche del mondo contempraneo, caratteristica, tra l'altro, tipica di molti personaggi chapliniani, molto cara a Tommaso e ben rappresentata nel contenuto dei suoi testi.
Dopo questa presentazione generale del progetto musicale e dei componenti che ne fanno parte passiamo ad un breve racconto della nostra esperienza in studio e alle impressioni, soprattutto emotive, che la musica di questi cinque ragazzi ci ha generosamente e caldamente regalato.
La band ha eseguito nelle due ore di prove una corposa scaletta di più di una decina di pezzi. Come al solito, per progetti musicali creativi e originali come questo, è molto difficile descriverne il prodotto affidandosi ad una sola etichetta di genere canonizzata e si limiterebbe di molto il lavoro e la ricerca musicale svolta se si cercasse di farlo. I Ramblin' Chaplin, come ci ha spiegato Domenico, come genere si inseriscono nella tradizione del prog italiano, tuttavia la loro anima è molto più variegata. Sicuramente è vero che si percepisce in molti pezzi l'influenza di un'aria progressive, che strizza l'occhio ad un sound anni 70 (Orme e Banco su tutti), soprattutto con gli assoli complessi e tecnicamente meravigliosi di Domenico e con i ricercati inserti e sottofondi tastieristici di Riccardo.Tuttavia, è altrettanto vero, che rimane percepibile una forte aura legata agli "esordi cantautoriali" del gruppo, soprattutto per la forte importanza data ai testi nella struttura compositiva delle canzoni ( un rimando al grande De Andrè è d'obbligo) e per una melodicità quasi folk popolare che anima in modo incalzante gran parte dei pezzi (si sente fortemente l'influenza di un gruppo come la Pfm).
Un altro elemento che si percepisce, come un leggero vento che attraversa le composizioni, è una sorta di gusto epico-medievaleggiate sia nei ritmi che nei testi. Tutto ciò ci riporta a melodie quasi arcaiche, che nel mix sempre ben congeniato dai cinque musicisti, riesce a darci un ulteriore senso di straniamento e oniricità.
Le canzoni, come è intuibile da ciò che abbiamo detto, sono caratterizzate da un atmosfera molto variegata, caratterizzata da cambi di ritmo improvvisi e da un suono stratificato che unisce varie anime musicali, per modificarle, giocarci, distruggerle e poi ricompone dando all'ascoltatore un continuo senso di imprevedibilità e disorientamento che richiama fortemente l'estetica del non finito, dell'incerto e del mutevole e ci invoglia, nello stesso tempo, alla ricomposizione di questa incompletezza.
Come abbiamo già avuto modo di dire, nella musica dei Ramblin Chaplin, la componente testuale è molto importante. Mi sembra importante notare che le composizioni musicali di Domenico e, in generale, l'apporto e l'arrangiamento complessivo di tutti gli altri componenti del gruppo, fanno in modo di bilanciare sempre molto bene un suono strutturato e raffinato con una chiara esigenza comunicativa di contenuto vocale che si esprime nella voce sincera di Tommaso. Inoltre il rapporto musica-voce è, a mio parere, sempre fortemente connotativo anche dal punto di vista contenutistico. Il gioco delle parti tra queste due componenti è spesso rappresentativo del messaggio espresso dalle parole (come nel pezzo Il giorno e la notte), andando a caricare di maggior significato l'intera struttura dei pezzi.
Parlando più specificatamente dei testi e del loro contenuto, si può notare come le tematiche dell'emarginazione sociale e dello slancio libertario siano sicuramente tra le principali. Intorno a queste colonne di significato, si scatenano tutta una serie di rappresentazioni e rimandi di sapore differente, che evidenziano sicuramente la passione di Tommaso per la cultura mistica, l'immaginario filosofico, il mito e le atmosfere epico-cavalleresche. Spesso i soggetti delle canzoni sembrano essere presenze di natura angelica, immateriale, che guardano l'orizzonte alla ricerca della libertà. Sono estrinsecazioni spirituali, che paiono aver abbandonato le proprie nature corporee, per rifugiarsi in una terra lontana come conchiglie sul fondo dell'oceano o uccelli che volano ad altezze siderali . Le parole ci accompagnano in un mondo lontano fatto di sussurri dolci che ci cullano dolcemente come le onde di un mare infinito, che però è sempre pronto ad agitarsi in urli improvvisi e cambi di ritmo vertiginosi, ulteriore espressione di voglia di indagare una mutevolezza che oltre ad essere un marchio stilistico, per i Ramblin Chaplin', sembra anche essere la caratteristica principale di uno sguardo moderno che vuole approcciarsi al mondo e all'arte in modo genuino e consapevole.
In definitiva I Ramblin' Chaplin propongono un progetto di indubbia complessità e ricercatezza artistica, il loro è un viaggio nella tradizione e nello stesso tempo è uno sguardo lucido sulla complessità del presente e sulla sua continua e inevitabile mutevolezza che ci porta costantemente a trascendere l'orizzonte e a guardare al futuro.
L'appassionata ricerca stilistica e musicale ha portato il gruppo al consolidamento di un sempre più caratteristico modo personale di fare musica, che non mancherà di essere espresso nei numerosi live che la band ama fare e ha già in programma. Vi consigliamo caldamente di conoscere questi ragazzi e di sentirli dal vivo per poter apprezzare la loro creatività e la loro sincera passione per la musica fatta dal basso e senza compromessi.

Per conoscerli potete visitare la pagina facebook:
https://www.facebook.com/pages/Ramblin-Chaplin/149121685189285?hc_location=stream

Oppure visitare:
https://soundcloud.com/ramblin-chaplin-1

mercoledì 8 maggio 2013

La sindrome dell'influenza

La sindrome dell'influenza


Dal 6 Aprile 2013 fino al 23 Febbraio 2014 in mostra a Milano la sesta edizione del Triennale Design Museum.

La storia del design si dispiega davanti a noi attraverso le sue contaminazioni ed influenze. Ventidue designer collaborano per la creazione di una mostra ad alto livello interpretativo, che fa emergere la posizione del design italiano nel mondo come elemento di riferimento a cui guardare su scala mondiale, ma anche come frutto di uno sguardo proiettato sempre all'esterno. 
L'esposizione, curata da Pierluigi Nicolin, risulta interessante già dal titolo, la sindrome infatti rimanda al mondo della malattia, all'idea della propagazione, della diffusione e quindi della contaminazione. Egli agisce come un direttore d'orchestra organizzando l'esposizione ed i lavori dei partecipanti in tre aree, riprendendo lo schema ritmico tripartito ABA' come nei più grandi capolavori di Mozart e Beethoven. La prima sezione è dedicata ai maestri del design italiano, coloro che prendendo spunto dal contesto in cui erano immersi hanno saputo portare una ventata di modernizzazione nel design del secondo Dopoguerra. Queste personalità sono rilette ed interpretate sulla base delle differenti approcci dai giovani progettisti, i quali vi si accostano tal volta con sguardo oggettivo evidenziandone pregi e difetti, tal volta in modo emotivo ed anche estremamente coinvolto. Particolarmente interessante risulta sicuramente la rilettura di Vico Magistretti ad opera di Paolo Ulian, elementi della quotidianità e della produzione seriale, attraverso l'uso della luce proiettano sulle pareti candide i must della produzione del maestro, così viene interpretato il differente sguardo nei confronti del reale, la ricerca di nuovi modi d'uso, di nuove possibilità. Altra interpretazione particolarmente coinvolgente ed azzeccata, a mio parere, è quella proposta da Lorenzo Damiani riguardante i fratelli Castiglioni. L'oggetto diventa il protagonista della scena, differenti sedute sono disposte nello spazio, ognuna si presta ad interagire con il pubblico, ognuna è accompagnata da una scatoletta che raccoglie la storia dell'oggetto, ma non solo dal punto di vista materiale, dimensionale o produttivo. In queste cassette sono raccolti gli spunti, le immagini e tutto l'iter progettuale-artistico che le ha prodotte, è come entrare nella mente dei fratelli Castiglioni per poter guardare questi oggetti con altri occhi. Abbastanza deludenti, a mio parere, sono state invece le interpretazioni di Ponti ad opera di Martino Gamper e di Marco Ferreri su Albini. La prima basa tutta l'istallazione sull'esperienza personale del progettista, che vede in Ponti un'importante influenza a livello personale. Tuttavia la scelta di incentrare tutta la lettura di un maestro del calibro di Ponti attraverso due sole architetture che assumono una valenza nei ricordi di Gamper bambino, l'hotel Paradiso, e di Gamper progettista, l'hotel parco dei Principi, mi sembra limitativa per una figura che ha lasciato un segno così profondo nel design italiano. Per quanto riguarda la lettura di Albini, sinceramente trovo estremamente alta la citazione dell'esposizione di Palazzo Bianco alla quale riporta il basamento progettato per il frammento del monumento funebre alla regina Margherita di Brabante, ma anche molto riduttiva; tanto che l'esposizione sembra spoglia e vuota.



Vico Magistretti interpretato da Paolo Ulian, foto di Nicole Sassi.
Link: 
http://www.abitare.it/it/news/la-sindrome-dellinfluenza/


La seconda parte invece riguarda la distruzione creatrice. A tal proposito Nicolin dice: "qui finisce la storia delle idee per fare spazio a una fiducia nella cultura di massa, nei modelli di crescita industriale, nella moltiplicazione dei generi di consumo [...] Tornando a interrogare che ha vissuto quel periodo, anni in cui il design si è trasformato nelle mani dei brand, senza alcun rispetto per ecologia e sostenibilità, diventando una forma di produzione delle forme." Sono gli anni del radical, della distruzione di tutto per poter costruire di nuovo. Questo caos è reso decisamente bene attraverso l'allestimento. Si entra infatti in un ambiente dove tutti gli oggetti sono disposti senza etichette, accostati a video dove i progettisti vengono intervistati, tuttavia le voci si sommano nello spazio ed attraverso un gioco di doppi specchi questi oggetti si moltiplicano all'infinito, la dimensione si perde ed il tempo con essa. 

La distruzione creatrice,foto di Paolo Scottini.Link: http://www.abitare.it/it/news/la-sindrome-dellinfluenza/


L'ultima sezione è dedicata alle aziende italiane che hanno cominciato la loro storia come piccole imprese artigianali e sono cresciute fino a diventare brand conosciuti a livello internazionale. Così si riprende la prima parte attraverso i promotori e scopritori del design contemporaneo. Vari progettisti interpretano i maggiori brand, ricreando piccoli mondi, fatti di oggetti, segni, immaginari all'interno di grandi scatole bianche. Sicuramente da non perdere sono le istallazioni di Alessi realizzata da Alessandro Mendini, che ricrea un mondo futuristico fatto degli oggetti stessi del brand mostrando come questi propaghino in tutto il mondo, insieme a quella di Flos progettata da Ron Gilard, dove le miniature delle lampade di produzione del brand siedono a tavola, come in un pranzo mentre la scena cambia continuamente attraverso l'illuminazione a turno delle differenti lampade.

Alessi interpretato da Alessandro Mendini, foto di Michela Vado.
Link: 
http://www.abitare.it/it/news/la-sindrome-dellinfluenza/


Questa sesta edizione, seppur un po' tradizionale dal punto di vista dell'allestimento spaziale, si svolge infatti per successione di micro-ambienti, è sicuramente un'interessante lettura della storia del design italiano e un auspicio alla ripresa, in un periodo di crisi, che riparta dal made in Italy e dalla storia stessa del design come frutto e generatore di influenze.


Per informazioni su orari e costi:
http://www.triennale.it/it/mostre/future/2323-vi-triennale-design-museum-la-sindrome-dellinfluenza

domenica 5 maggio 2013

Black Mirror

Black Mirror: uno sguardo limpido sul rapporto tra uomo ed innervazione tecnica



Una breve analisi teoretica delle tematiche principali.



Link: http://connect.collectorz.com/movies/database/black-mirror-season-1-2011

Il rapporto tra uomo, innovazione tecnica e comunicazione mediatica è un intreccio che caratterizza sempre più capillarmente le nostre esistenze. La progressiva innervazione tecnologica da parte dell'uomo riconfigura costantemente i nostri sensi, il nostro modo di pensare, di relazionarci e di agire nel mondo.
Questa realtà mutevole e complessa apre l'umanità a nuovi orizzonti, nuove opportunità, nuove paure e nuovi importanti interrogativi. E' proprio all'interno di questo contesto di riflessione che si inserisce Black Mirror, una serie televisiva britannica prodotta e diretta da Charlie Brooker. Ho guardato di recente la prima delle due serie e ne sono stato piacevolmente colpito.
Per cominciare, parlando da un punto di vista prettamente strutturale, Black Mirror si configura come una serie abbastanza atipica. Ogni serie è composta da soli tre episodi autoconclusivi con un cast sempre diverso e una trama a sé stante. L'ordine in cui si guardano non importa, l'unica cosa che li accomuna è, appunto, l'indagine generale sulle tecnologie e i media e su come essi possano agire nella nostra quotidianità.
I tre episodi che compongono la prima serie si intitolano rispettivamente: The national Anthem, 15 Milion Merits e The Entire History of you.
The National Anthem ci mette immediatamente di fronte ad una situazione che per certi versi ha dell'assurdo, quasi kafkiana, ma nello stesso tempo estremamente "possibile". La principessa Susanna è stata rapita. Il rapitore pubblica su You Tube un video nella quale si dice che risparmierà la ragazza a patto che il Primo Ministro abbia un rapporto sessuale con una scrofa in diretta televisiva nazionale. Questo incipit devastante e travolgente diventa un ottimo punto di partenza per analizzare la potenza mediatica di Internet e dei social network, sia dal punto di vista della circolazione dell'informazione che come veicolo di formazione e condivisione dell'opinione pubblica.
L'informazione una volta prodotta diventa ingovernabile, attraversa le reti quasi simultaneamente, entra  nei nostri cervelli attraverso molteplici canali. Viene vista, manipolata, interpretata e reinterpretata continuamente. Si crea una vera e propria battaglia per possederla.
La politica si intreccia con i meccanismi dei canali d'informazione. Una notizia come quella proposta dall'incipit di The National Anthem che riguarda le più alte sfere governative diventa subito un caso pubblico. E' una bomba pronta ad esplodere, sulla quale si riversano gli occhi di un'intera nazione pronta a giudicare l'operato dei propri rappresentanti politici e a schierarsi immediatamente da una parte o dall'altra, decidendo sulla base di un'immagine quale sarebbe il comportamento giusto e quello sbagliato. Black Mirror analizza benissimo alcuni tratti fondamentali tipici del rapporto quotidiano tra uomo e mass media. Vengono infatti ripresi gli sguardi e i commenti a caldo della folla davanti alla tv, l'opinione pubblica che si esprime in sondaggi televisivi "tagliandosi con l'accetta" in una sorta di manicheismo estremo tra appoggio o contrarietà, le reazioni emotive spropositate davanti all'immagine e soprattutto, il cambiamento repentino del giudizio di fronte ad un "nuovo" sviluppo della vicenda.
Proprio su questo ultimo punto, il cambiamento repentino di opinione, credo che questo primo episodio dell'opera di Brooker fornisca spunti di riflessione interessante.
Nella nostra società affidiamo spesso la verità delle nostre convinzioni alle immagini che ci vengono proposte. Crediamo, quasi inconsciamente, che l'immagine che si svolge davanti ai nostri occhi sia una prova di una realtà, che pur non essendo qui davanti a noi, conserva con essa (l'immagine) un rapporto di stretto rimando referenziale. In The National Anthem il rapitore ad un certo punto condivide un video dove "mostra" di tagliare un dito alla principessa rapita, poiché il primo ministro ha cercato di imbrogliare nell'adempimento del suo " compito" ricorrendo ad un esperto di effetti speciali per ritirarsi dall'umiliazione pubblica. A questo fatto l'opinione si indigna e se fino a quel punto stava dalla parte del primo ministro, ora pretende che egli ripari ai suoi errori "sacrificandosi" per la principessa e la nazione alla luce della terribile tortura alla quale hanno assistito in diretta. Inseguito si scoprirà che il dito mozzato era quello del rapitore stesso, il primo ministro accetterà l'umiliazione pubblica e la principessa verrà rilasciata, addirittura mezz'ora prima dell'ultimatum nelle strade deserte di Londra, dando luogo ad una visione quasi surreale in cui tutta la popolazione è davanti alla tv mentre la vittima per cui la popolazione si è mossa ed indignata barcolla senza forza su un ponte, senza nessuno che l'aiuti. Questa è la più grande performance artistica di tutti i tempi.
La cosa che qui risulta molto interessante, a mio parere, è il potere ambiguo dell'immagine. Tutti conosciamo le possibilità di modifica e occultamento delle immagini, tuttavia esse ci attraggono a loro, veicolano i nostri sentimenti e le nostre credenze sul reale. Le possibilità dissimulatorie, documentative, rappresentative, mimetiche e manipolatorie dell'immagine si confondono e ci confondono, consentendo una quantità di azioni imprevedibili che provocano conseguenze interpretatorie difficilmente controllabili.
La simultaneità di internet rafforza molto questa "illusione" di presa percettiva e cognitiva sulla realtà. La diretta simultanea ci fa quasi dimenticare dell'intermediario mediatico, ci da l'illusione di seguire direttamente l'evento e di parteciparvi come testimone oculari. Il contenuto viene troppo spesso interpretato estrapolandolo dal medium da cui è trasmesso, dimenticandoci delle possibilità di questa mediazione.
Lo stimolo che sembra suggerire questa "performance artistica" è che non bisogna dimenticarci del potere e dell'ambiguità dell'immagine e delle informazioni trasmesse. La realtà è sempre molto più stratificata di come appare sugli schermi e una ricerca della verità basata sull'apparente sincerità data dalla simultaneità dei video caricati in internet o dei contenuti dei social che permetterebbe, in un certo senso, la diminuzione della mediazione ( rispetto ad esempio ai giornali o ai telegiornali), non è comunque sufficiente ad inquadrare univocamente l'interpretazione di un'immagine e il suo riferimento.


Link: http://ikono.org/2011/12/black-mirror-best-tv-show-of-2011/

Passiamo ora al secondo episodio, "15 milion merits" sicuramente il più futuristico e distopico dei tre. Il mondo che ci viene proposto è quello di un alienante palazzo simile ad un parcheggio-palestra a più piani e sezioni. Le persone vivono in piccole stanze circondate da grandissimi schermi che le bombardano costantemente di immagini e pubblicità di vario genere. Il motore "produttivo" della società sono delle cyclette sulle quali la gente continua a pedalare senza sosta ricompensata da punti virtuali, esattamente come quelli che si potrebbero ottenere in un videogioco, ed essi servono principalmente a comprare oggetti e gadget virtuali. Inutile dire che già da questa situazione di partenza il senso di alienazione che si percepisce è davvero fortissimo. La "gamezzizazione" della vita in questo secondo episodio sembra essere il marchio di ogni singola azione della nostra esistenza. Ogni individuo perde o guadagna punti a seconda delle sue azioni, tuttavia è costretto a partecipare al "gioco" costantemente.Ogni scelta porta sempre una ricompensa o una perdita di punti virtuali, ma in un mondo dove per poter fare qualsiasi scelta è necessario possedere dei punti virtuali, questo meccanismo risulta essere una costrizione fortissima che non permette nessuna vera possibilità di decisione libera.
La stessa idea di "bisogno" che emerge da 15 Milion Merits è quella di qualcosa di imposto e superfluo. Il protagonista si lamenterà spesso del fatto che ciò che è guadagnato serve solo a comprare cose virtuali.
Questo tema è secondo me interessante per parlare di una fondamentale dissociazione esistenziale che la virtualizzazione estrema potrebbe portare e che Black Mirror cerca di mostrarci nei suoi effetti più catastrofici. Il prodotto del lavoro, i punti virtuali, possono sicuramente essere paragonati ai nostri guadagni monetari, alla nostra economia volatile, alle continue transazioni di capitali che si allontanano sempre più dalla materialità del mezzo di scambio. Tuttavia in questo episodio si fa un passo in più. Infatti, i punti servono per abbellire, modificare e "migliorare" un vero e proprio simulacro esistenziale, un avatar, che risulta essere una vera e propria dissociazione dell'individuo. L'uomo è sottratto, parlando in termini marxisti, dal prodotto del suo lavoro rendendo la sua azione produttiva completamente priva di qualunque scopo poietico. Le nostre azioni modificano la nostra vita, imprimono una forza di cambiamento e modificazione nel nostro ambiente vitale. In questa realtà tutto questo è annullato fino a percepire una soppressione completa della stessa umanità biologico-esistenziale.
Oltre ai temi dell'alienazione e della dissociazione esistenziale in 15 Milion Merits risulta essere presentissima l'idea di una deleteria corsa all'edonismo e una totale spettacolarizzazione del reale. Sembra infatti che lo scopo principale della vita consista nel racimolare 15 milioni di punti, attraverso le poche azioni quotidiane che sono permesse e tante ore sulle cyclette, per poter partecipare ad un programma televisivo dove ci si esibisce davanti a tre giudici e in questo modo si spera di diventare una star di uno show televisivo.
La scalata al successo nel mondo della Tv sembra rappresentare l'unica via di salvezza e di emancipazione sociale possibile, tutto viene appiattito e banalizzato in una esibizione di pochi minuti, che sembra essere l'ultimo baluardo possibile dell'azione umana creativa. Ogni individuo che ha l'occasione di potersi esibire davanti ai tre giudici lo fa anche davanti ad una platea sterminata di avatar, proiezioni degli umani chiusi nelle loro camere-schermo a guardare il programma. L'immagine che ne risulta, anche e soprattutto visivamente, è quella di una realtà senza profondità. La piattezza degli schermi che circondano costantemente i protagonisti, quella del pubblico di avatar davanti al quale si esibiscono le aspiranti star e perfino le macchinette per il cibo a selezione palmare sono connotative di una mancanza di stratificazione esistenziale dei personaggi e della vita in generale proposta in questa distopia.
Ultimo tema, forse il più scioccante, è quello dell'impossibilità della rivolta in una società dove ogni cosa viene riprodotta e strumentalizzata per lo spettacolo. Il protagonista riesce a farsi ammettere ad Hot Star ed è fortemente determinato a compiere un atto di ribellione davanti alla giuria, a urlare ciò che pensa, sperando, in questo modo, di dare una scossa alla sua esistenza e anche quella degli spettatori. La sua arringa è tutta di pancia, è un grido esistenziale straziante, è lo scoppio di un'anima umana che reclama la sua dignità e la sua libertà dall'alienazione  Il momento è toccante, mi ha ricordato il famoso monologo di Edward Norton nella 25 ora di Spike Lee. Nonostante questo climax di tensione, che sembra portare un pò di sana forza vitale in un mondo sterile e "inorganico", le sue conseguenze sono sconcertanti. Lo sfogo del protagonista è subito strumentalizzato dai giudici, che intravedono nella sua forza un potenziale spettacolare non indifferente. La critica muore istantaneamente e diventa essa stessa parte del sistema. Gli viene dato un programma dove potersi sfogare e "criticare" la realtà sociale, ma in questo modo la sua efficacia è già scomparsa.
Questo tema, già molto caro a filosofi del calibro di Benjamin o Deborde, è davvero inquietante e spaventoso. Le pulsioni di emancipazione, lo spirito critico, la voglia di libertà possono essere convertite, attraverso i mezzi di riproduzione tecnica di massa, in uno spettacolo mediatico che diventa un palliativo comune per i problemi sociali ed esistenziali. Le masse sfogano i loro istinti attraverso il media, si immedesimano e si ribellano attraverso di lui, ma senza passare all'azione. In questo modo si è davanti ad una simulazione incarnata delle proprie tensioni, una continua droga di rabbia sterile, che ci rende docili al controllo.


Link:http://www.daringtodo.com/lang/it/2013/03/20/black-mirror-la-seconda-stagione-ieri-sera-su-sky/

Terzo e ultimo episodio della prima serie, The Entire History of you, è forse il  il punto più alto di questo primo ciclo.
Immaginiamo che in un futuro non troppo lontano, quasi presente, ogni frammento della nostra vita possa essere immagazzinato in una memoria informatica attraverso un chip posto dietro il nostro orecchio e successivamente le immagini memorizzate possano essere riprodotte a piacimento davanti ai nostri occhi o addirittura su un monitor pubblico condividendone la visione con altre persone. Immaginiamo in seguito un giovane avvocato estremamente geloso di sua moglie, una cena con dei vecchi amici e alcuni scambi di sguardi e di battute un pò equivoche tra la moglie del giovane avvocato e uno degli amici in questione. La spirale di paranoia e sospetto è una conseguenza inevitabile ed è alimentata in modo devastante dalla possibilità offerta dal chip di scandagliare i ricordi e le esperienze delle persone pubblicamente.
Questo terzo episodio risulta estremamente interessante per molti motivi.
Innanzitutto una tecnologia come quella di questo chip, porta ad una modifica nel modo di percepire il proprio tempo. Che cosa voglio dire? Tutti noi agiamo e viviamo in un presente attuale, rispondiamo agli stimoli, ci muoviamo, programmiamo le nostre azioni secondo le circostanze presenti etc etc. Tuttavia il nostro approccio al mondo non è caratterizzato solamente dalle contingenze attuali, ma si basa anche su un continuo carosello di immagini interne provenienti dagli stimoli passati, dalle esperienze che abbiamo vissuto, dai nostri ricordi, da quello che magari vogliamo tenere solo per noi ma che comunque influenza le nostre scelte. Il microchip di questo terzo episodio confonde questo piano interno con quello esterno, spezza la linearità del tempo attuale che si svolge davanti ai nostri occhi e ai nostri sensi. Il tempo interno è fatto di balzi, associazioni frammentarie, rimandi continui ad esperienze più o meno passate. La possibilità di poter proiettare davanti ai propri occhi uno qualsiasi di questi frammenti temporali ed esistenziali spezza la continuità dell'ambiente in cui ci muoviamo.
La profondità percettiva viene appiattita come in un monitor, i nostri bulbi oculari diventano due proiettori, le immagini vengono riprodotte, possono essere modificate, rallentate, bloccate ( bellissime le sequenze dove il protagonista continua a far avanzare, stoppare e ripartire le stesse immagini davanti ai suoi occhi),in poche parole quello che viene modificato è l'aspetto prettamente ecologico della percezione.
Questa modifica del tempo attuale non ha solamente conseguenze "percettive" ma anche esistenziali. L'uomo ha la possibilità di sfuggire dal presente in qualunque momento, proiettando i ricordi felici e gradevoli di esperienze passate avendo l'occasione di riviverli. Certamente questo è già in un certo modo possibile attraverso i nostri sistemi di ripresa e riproduzione, ma un meccanismo come quello del chip in questione consente un appagamento e un'immedesimazione molto maggiore, poiché sono i nostri stessi occhi ad avere quelle immagini impresse e proiettate sulla retina (idea molto simile a quella mostrata dalla Bigelow nel suo bellissimo "Strange Days").
Qui il tema dell'innervazione tecnica raggiunge livelli di riflessione davvero molto profondi. I personaggi di The Entire History of you sono dei Cyborg a tutti gli effetti, la tecnologia ha modificato le loro possibilità percettive intrecciandosi con il loro apparato sensorio consentendo un diverso controllo sul reale, in questo caso, sulla dimensione esperienziale interna.
Strettamente collegato a quest'ultimo tema dell'innervazione è una concezione ossessionata e ossessionante per la verità. La possibilità di rivedere davanti ai propri occhi le immagini della vita di ognuno, toglie la possibilità del racconto, della modifica verbale, dell'omissione. In una società come questa la propria storia non è da raccontare ma da mostrare così com'è. Tutto questo fa si che si sviluppi una vera e propria mania per il dettaglio (il protagonista chiede alla moglie più volte la durata "esatta" della sua relazione extraconiugale con un impeto quasi maniacale, che sembra slegarsi dal fatto in sé del tradimento), che esula dal contenuto esperienziale ed esistenziale degli eventi vissuti.


Link:http://blogs.independent.co.uk/2011/12/19/review-of-black-mirror-%E2%80%93-%E2%80%98the-entire-history-of-you%E2%80%99/

Ovviamente ci sarebbero molte altre tematiche e spunti di riflessione per ognuno degli episodi della serie, in questo articolo mi sono limitato ad evidenziare gli aspetti che mi sembravano salienti e di maggior impatto.
Per concludere, Black Mirror è una serie che tratta con maturità estrema, grande potenza visiva e narrativa importantissimi temi legati al rapporto dell'umanità con la propria produzione tecnologica, dando adito ad una ampissima quantità di possibili riflessioni e stimoli. Tutto questo è calato in un contesto quasi quotidiano che rende ancora più efficace la sua proposta riflessiva. 
In definitiva: un'opera da vedere assolutamente e su cui pensare a lungo.
(ah...dimenticavo...un grazie speciale a Nicolò per avermi bollato per tanto tempo dicendomi di guardare la serie, ne è valsa davvero la pena!)