lunedì 8 dicembre 2014

La leggerezza del concreto

Guardando a ritroso nella storia dell'architettura si può notare come ogni epoca abbia un materiale principe. L'800 è sicuramente l'epoca del ferro affiancato naturalmente al vetro, in questo secolo si assiste alla fioritura di grandi opere infrastrutturali e dei grandi palazzi per le esposizioni universali, dal Crystal Palace di R. Paxton alla Galleria delle Macchine di Dutert e Contamin, l'avvento dell'ingegneria cambia in modo radicale la figura dell'architetto ed il suo ruolo.
Il '900, per larga parte si caratterizza invece per l'utilizzo in architettura del cemento, mentre verso la fine del secolo si assiste all'avvento dei materiali plastici e sintetici che assumono un ruolo preponderante nella progettazione. 
In particolare il cemento armato nasce nel 1867 dalle sperimentazioni del giardiniere Joseph Monier, il quale, alla ricerca della ricetta perfetta per realizzare ottimi vasi di fiori da presentare all'esposizione universale parigina dello stesso anno, decide di combinare cemento ed armatura in ferro. Da cosa nasce cosa e da un semplice vaso prese le mosse una vera e propria rivoluzione architettonica e culturale. 
In particolare è il Movimento Moderno ad esaltare le potenzialità fisiche, plastiche ed estetiche del cemento armato. Il cemento permette infatti di scindere gli elementi portanti dai tamponamenti e di gestire i carichi strutturali attraverso l'uso di supporti puntiformi anziché lineari. Questo è il punto di partenza di tutta l'architettura di Le Corbusier, nel cemento armato si trova la base dei 5 punti chiave dell'architettura moderna e della nuova concezione dell'abitare novecentesca. Non rappresenta quindi solo un'innovazione tecnologica ma culturale, chissà se Monier poteva immaginare gli strascichi della sua invenzione nel momento in cui costruiva le sue prime fioriere armate! 
Nonostante l'amore profondo tra gli architetti moderni ed il cemento armato la sperimentazione sul materiale rimane prevalentemente ad un livello superficiale; le proprietà fisiche e meccaniche sono sicuramente le doti più ricercate insieme alla brutalità dell'estetica del materiale e la sua forte contrapposizione con la decorazione liberty, ma la ricerca di una maggiore espressività è decisamente trascurata, così come l'applicazione in altri campi. 
Miguel Fisac rappresenta senza ombra di dubbio un'eccezione, nei suoi progetti l'architetto spagnolo va oltre l'utilizzo del cemento consolidato ricercandone capacità espressive che vanno oltre le prestazioni meccaniche. Nella realizzazione del suo studio a Madrid, Fisac compie un'operazione davvero interessante sostituendo i casseri lignei con il tessuto. Sfrutta al meglio quindi la doppia natura liquida e solida del materiale ottenendo un'effetto ossimorico: durezza e solidità al tatto, morbidezza alla vista. 


M. Fisac, facciata dello studio dell'architetto a Madrid

Recentemente stiamo assistendo ad una vera e propria riscoperta del cemento sopratutto negli interni. 
Abbiamo infatti già citato più volte di giovani artisti che oggi, in un mondo dove la sperimentazione dei nuovi materiali muove verso la chimica e la tendenza al simile o verosimile, riprendono e riscoprono "vecchi materiali" ai quali forse non è stato dato il giusto peso nella storia, materiali che avevano molte più doti nascoste rispetto a quelle che si sono palesate. 
In questo senso ed all'interno di questa ricerca prendono le mosse i progetti di Daniele Stiavetti, architetto livornese che da qualche anno attraverso il connubio tra cemento e tessuto realizza vasi da fiori. 


Daniele Stiavetti, n°7/2013 Singolo Bianco
Quadro: Maria Lorenzelli, ...di notte e di vele, olio su tela

Non a caso troviamo una forte assonanza con il lavoro di Monier, essendo la natura il punto di partenza, e con le sperimentazioni di Fisac sul conferimento ad un materiale solido una volatilità e leggerezza tipica di un tessuto o viceversa di una rigidità ed immobilità ad un materiale sempre in movimento, dipende dal punto di vista con cui preferiamo guardare alle opere. 
Semplici ma fortemente espressivi, questi vasi si collocano in quello che è il limitrofo campo dell'interior design, capace di sfiorare così da vicino le opere artistiche ma mantenere quella funzionalità che rende queste sculture oggetti. 
Una sperimentazione che vede in questa serie di realizzazioni solo un punto di partenza per un'esperienza più ampia capace di coinvolgere altri elementi del panorama interno. L'architetto si vede infatti attualmente impegnato nella realizzazione di un tavolo nel quale il connubio tra tessuto e cemento diventa l'elemento decorativo del piede.
Si scrivono così nuove pagine della storia di un materiale di cui c'è ancora tantissimo da scoprire e non ci resta che starà a vedere dove queste ricerche ci condurranno.


domenica 26 ottobre 2014

Sweet Tooth





La Distopia secondo Jeff Lemire




Quante volte a proposito del nostro presente sentiamo pronunciare la parola “crisi”? Crisi economica, crisi ambientale, crisi sociale, crisi dei valori, crisi delle certezze. Il nostro tempo, quello della post-modernità, della biocibernetica, della liquidità professionale, emotiva e identitaria sembra sempre essere sull’orlo di una catastrofe che nell’immaginario globale assume, di volta in volta, forme e scenari differenti. Ci immaginiamo come potrebbe essere il mondo dopo il crollo totale del nostro sistema economico, quali potrebbero essere gli effetti di una guerra globale, quali conseguenze potrebbe portare la progressiva innervazione tecnica, soprattutto dal punto di vista riproduttivo e identitario, cosa potrebbe succedere all’esaurimento delle risorse energetiche del pianeta, quali potrebbero essere gli effetti di un’epidemia globale. Insomma, credo si possa dire che, attualmente, la nostra mente viva a stretto contatto con un ampia gamma di “distopie” e che, date reali possibilità e situazioni, queste siano forse più vicine e immaginabili rispetto al passato.
Alla luce di tutto ciò non mi sorprende che anche all’interno della produzione mediale, dalla letteratura al cinema, dai fumetti ai videogiochi, la tematica distopica stia attualmente avendo un gran numero di trasposizioni, incarnazioni ed interpretazioni. Il presente è incerto, i rischi sono tanti e il futuro fa paura in molti modi, stimolando così la macchina letale dell’immaginazione.
Al fascino spaventoso di questo gioco di fantasia non è stato certamente indifferente Jeff Lemire che con la sua serie Sweet Tooth, pubblicata in Italia da Rw Lion e arrivata ad ora al suo quarto volume, inserendosi a pieno nel solco di opere letterarie come “L’ombra dello scorpione” di King o “La Strada” di Cormac McCarthy, mette in scena una nuova visione post-apocalittica del destino dell’umanità.





L’incipit dell’opera di Lemire è semplice ed efficace. Fin dalle prime pagine scopriamo che un’ epidemia, l’ “Afflizione”, ha sterminato miliardi di persone e gli unici bambini nati da allora sono una razza ibrida tra uomini e animali. Uno di questi è il giovane Gus, un ragazzino metà umano metà cervo, che dopo l’epidemia ha sempre vissuto al sicuro con suo padre in una piccola casa nel bosco. Gus non si è mai allontanato da quel luogo e il padre lo ha sempre protetto. Bisogna infatti sapere che i bambini come Gus sono gli unici esseri, ad avere una traccia di umanità,  refrattari al virus dell’Afflizione e per questo sono ricercati dai cacciatori di taglie. Tutti vogliono scoprire quale sia il segreto della loro immunità. Il padre di Gus fa di tutto per tenere suo figlio nascosto ai pericoli del mondo, ma egli deve lottare contro l’Afflizione dentro di lui che, inesorabilmente, lo colpisce portandolo alla morte. Il ragazzo-cervo si ritrova dunque da solo nel bosco, fino a quando alcuni cacciatori non lo troveranno. Tutto sembra perduto per il povero Gus, ormai braccato, quando all’improvviso appare Jepperd, un uomo enorme e dai modi violenti, che mette fuori gioco i cacciatori e si propone di aiutare il ragazzo a raggiungere “La riserva” , un posto dove gli ibridi possono vivere in tranquillità. Quale sarà il destino di Gus? La Riserva esisterà davvero o sarà solo un inganno? Chi è Jepperd? Perché vuole aiutare Gus?


Sweet Tooth è un’opera dai toni cupi, malinconici, grotteschi e a tratti bizzarri. Al contrario di molte vicende narrative che partono dagli ambienti cittadini per delineare la propria distopia, Lemire parte dall’America rurale. Non ci troviamo dunque di fronte ad una metropoli in rovina, assediata dalle erbacce e dai rottami, dove gruppi di sopravvissuti cercano di sfuggire al contagio e di sopravvivere con la forza, ma in un bosco, dove il nostro protagonista vive al riparo da ciò tutto ciò che è successo, ignaro della tragedia e immerso nella visione mistico-religiosa inculcatagli dal padre. Tuttavia, questa non è una storia dai toni dolci e il ragazzo è costretto ben presto ad uscire dall’ovattato rifugio del padre per affrontare i pericoli del mondo. Lemire attraverso immagini d’impatto e testi intimisti, dotati di grande lirismo ed efficacia, ci mostra da subito l’ingenuità di Gus, bambino-ibrido, alle prese con un universo vastissimo, fatto di personaggi mostruosi ai suoi occhi, di cui è difficile giudicare le vere intenzioni. Eppure il ragazzo non sembra mosso dalla paura, ma da una timida curiosità perché, alla fine, “il mondo non è così cattivo come diceva papà” o forse è ancora più cattivo, ma non c’è modo per dirlo se non quello di provare a viverlo. La vicenda di Gus assume quindi da subito le sfumature di un viaggio di formazione, uno scontro con la realtà che lo porterà sicuramente a crescere e a confrontarsi con se stesso e con tutte le credenze maturate nella sua infanzia. 


Insieme alla scelta di far partire la vicenda dall’America rurale storicamente sede, sia in lettura sia in cinematografia, di torbide e violente pulsioni nascoste sotto la patina di semplicità e genuinità, si trova la trovata narrativa dei bambini-ibridi, stratagemma sicuramente interessante e ricco di rimandi al nostro presente. Ad una prima lettura si può sicuramente dire che Lemire ci mostra subito il tema classico dell’ingenuità dei più piccoli che può essere sfruttata da individui senza scrupoli. Non a caso la prima volta che Gus si allontanerà dal rifugio paterno sarà per raccogliere una barretta di cioccolato e Jepperd, il suo enigmatico “salvatore”, cercherà di rompere il ghiaccio tra loro proprio offrendogli un’altra barretta di cioccolato. E’ lo stilema del dolciume che attira i più piccoli, l’offerta innocente che può nascondere un pericolo che agli occhi dei bambini è inimmaginabile. Tuttavia, “l’ibrido”, non solo accentua con il bizzarro il tratto di perifericità alla società adulta già presente nel bambino, ma ci porta a ragionare anche su altre tematiche. Prima fra tutte, ovviamente, quella dell’identità di genere. L’idea di modificazioni e innesti genetici che possano mettere in crisi le storiche divisioni di generi è ormai un terreno di riflessione molto fertile, soprattutto dopo gli ultimi enormi sviluppi della biotecnologia. L’ibrido è quindi l’immagine di un futuro che va verso una progressiva innervazione tecnologica e Lemire, andando oltre l’immagine del cyborg “meccanico”, ci mostra il risultato di un ibridazione profonda, sottocutanea, genetica. Ecco che le immagini mitologiche degli ibridi animali acquisiscono ora un’ aura sempre meno metaforica e sempre più reale data dalle reali possibilità della biotecnologia. E’ una distopia nella distopia, è un’umanità devastata che vede già l’alba di un nuovo corso, una strada che forse la porterà ad essere tutt’altro da quello che era prima. Inoltre, il fatto che gli ibridi in Sweet Tooth siano “uomini-animali”, è sicuramente una connessione forte anche alla tematica ambientale e ad una storia che, dopo la catastrofe, sembra virare verso una condizione di maggior primordialità attraverso un avvicinamento al mondo animale.


Passando ora agli aspetti più formali legati all’impostazione narrativa dell’opera si può dire che Lemire, come di consueto, imposta le tavole con un forte taglio cinematografico, utilizzando le immagini come se al posto di una matita avesse in mano una cinepresa. Primi piani, zoom, carrellate veloci, stacchi improvvisi. Tutto questo si adatta perfettamente con la molteplicità dei ritmi narrativi che l’autore riesce sempre a coordinare in modo sapiente. Si passa, infatti, da scene intimiste e riflessive a sequenze d’azione estremamente concitate, dove l’autore riesce a far esplodere una violenza improvvisa.
Parlando ora dell’aspetto prettamente grafico, il tratto dell’autore è grezzo e nervoso, a prima vista abbozzato e quasi sgradevole, ma, in realtà, estremamente espressivo ed efficace. Jeff Lemire si concentra spesso, come in altre opere quali Essex County o Il Saldatore Subacqueo, sull’espressione facciali dei suoi personaggi, dando estrema attenzione agli sguardi e ai particolari, intrecciando relazioni, connotazioni e confronti dalle quali emergono continuamente una pluralità di vibrazioni emotive. I colori di Villarubia contribuiscono a dare al fumetto toni crepuscolari per le parti più intime, lanciandosi poi in improvvise esplosioni nelle sequenze action con inserti acidi di rossi, gialli e arancioni. Sangue, fuoco, pugni, mazzate, fuoco e pistole che sparano.
In conclusione, Sweet Tooth è un’opera estremamente valida. Per ora ho letto solo il primo volume, ma posso già dire di esserne stato colpito, sia per quanto riguarda la narrazione, i contenuti e lo stile grafico. Jeff Lemire si riconferma uno sceneggiatore di tutto rispetto e un autore da un tratto unico e personalissimo. L’unico appunto degno di nota, a mio parere, è la non eccelsa edizione della Lion, con una qualità di stampa appena sufficiente, tuttavia, a parte questo, Sweet Tooth merita certamente di essere letto. Consigliato.

lunedì 6 ottobre 2014

Solanin




La difficoltà di diventare adulti (e di provare ad essere felici)



Ho iniziato ad appassionarmi ai fumetti alle scuole medie e ho iniziato con i manga. Mi piacevano Dragon Ball e i cartoni giapponesi e perciò iniziai la mia  avventura nel mondo delle nuvolette cartacee facendo scorpacciate di quei libretti in bianco e nero dalle figure squadrate, che i miei genitori si ostinavano a guardare con sospetto, soprattutto perché si leggevano al contrario. Ricordo che a quel tempo schifavo i fumetti occidentali perché non mi stavano particolarmente simpatici i supereroi, li trovavo noiosi e perciò la scelta era obbligata: il Giappone. Posso dire che tutto partì da lì, dal Giappone, da quel mondo lontano che trasudava da ogni immagine che passava sotto le mie dita e davanti ai miei occhi.
Con il passare del tempo il mio pensiero è cambiato. Ora mi piace il fumetto occidentale. Ho imparato che i supereroi sono solo una minima parte della sua produzione e che, anche all’interno dello stesso genere supereroistico, si trovano opere meravigliose. Tuttavia i manga rimangono il mio primo amore e non ho mai smesso di leggerli. Ci sono tantissimi manga che ho amato e un numero considerevole di autori che apprezzo, primi fra tutti, Osamu Tezuka, Jiro Taniguchi, Naoki Urasawa, Hideo Yamamoto e Tsutomu Nihei, ma ce ne è uno che forse sento più vicino di ogni altro. Mi riferisco ad Inio Asano, classe 1980.
Inio Asano è l’ esponente di punta della new wave del fumetto nipponico. Di lui ho letto varie opere, tra cui: "What a wonderfull world!", "Il campo dell'arcobaleno", alcuni numeri di "Buonanotte Pun Pun" e "La città della luce". Proprio quest’ultimo volume, uscito nel 2005 in Giappone e arrivato in Italia nel 2007 grazie alla collana Manga San della Kappa edizioni, è il primo manga di Asano che ho avuto il piacere di leggere. Il suo stile di disegno e di narrazione mi hanno immediatamente colpito e mi hanno spinto ad approfondire la sua produzione, portandomi ad acquistare gli altri volumi pieno di grandi aspettative che, fino ad ora, sono sempre state appagate.
In questo articolo andrò dunque a parlare dell’ultimo manga di Asano che ho letto, ovvero Solanin. L’opera in questione, arrivata in Italia nel 2005, insieme al già citato “What a wonderfull world!”, è stata da subito apprezzata sia dal pubblico che dalla critica, arrivando, in seguito,  a ricevere una nomination agli Eisner Awards nel 2009 e a diventare un film per il grande schermo nel 2010. Già da questi primi dati iniziali si potrebbe intuire la qualità di questa lettura e il proseguire del mio umile commento non farà altro che rafforzare il giudizio positivo nei suoi confronti.



Solanin è la storia di due ragazzi, Meiko e Naruo (Taneda), che, finita da due anni l’università, si trovano a dover fronteggiare la vita da adulti con tutti i suoi problemi, le sue incertezze e le sue paure. I due, impegnati in una relazione da ormai sei anni, convivono in un piccolo appartamento di Tokio cercando di sbarcare il lunario come possono, provando a non pensare troppo al futuro e facendosi forza con l’affetto del loro rapporto. Naruo è la figura che,  dapprima, ci sembra essere più sognatrice e immatura tra i due. Egli, infatti, ha un lavoro part-time come illustratore per una rivista e nel tempo libero suona in una rock band con i suoi vecchi amici di università. La sua mentalità non pare essere troppo cambiata da quando era uno studente e Naruo non può che sentire i nuovi pesi, esistenziali e pratici, che porta con se il passaggio all’età adulta: la necessità di imboccare un progetto di vita sempre più definito e di raggiungere una vera autosufficienza economica.
Meiko, invece, a differenza di Naruo, sembra già essere più responsabile. La ragazza lavora come impiegata a tempo pieno in un’azienda e, nonostante il lavoro non le piaccia, cerca di tenere duro al fine di mantenersi e poter così rimanere a vivere a Tokio con il suo ragazzo. Questo precario equilibrio crollerà quando Meiko, decidendo di seguire il suo cuore piuttosto che la sua testa, sceglierà di licenziarsi.
L’evento segnerà profondamente la relazione tra i due ragazzi che si troveranno, per la prima volta, a doversi davvero confrontare con l’età adulta e con le conseguenze delle proprie scelte, sia nell’ottica del presente che in quella futura. Meiko compie la sua decisione nel tentativo di ritrovare una libertà che ormai gli mancava da troppo tempo, ma questa sensazione liberatoria dura molto poco, lasciando ben presto spazio alla noia e alla paura per quello che verrà. Naruo, al contrario, data la nuova situazione creatasi, è portato ad una maggiore responsabilità che, piano piano, sembra traghettarlo da una visione esistenziale legata ancora al mondo della giovinezza ad una condizione di maggior maturità. Tuttavia, proprio quando i ruoli tra i due paiono essersi invertiti, Naruo, spinto dalla stessa Meiko, decide anch’egli di licenziarsi e di seguire a tempo pieno il sogno di fare musica. Un reset totale, un colpo di spugna per riflettere sulle proprie aspirazioni, sulla natura del proprio rapporto, su ciò che è importante e ciò che è tralasciabile. 



Quello che Asano ci mostra immediatamente, come in molti altri  suoi lavori, è la forza prorompente e ineludibile dell’aspirazione ad essere felice che accompagna ogni animo umano, soprattutto nella giovinezza. E’ proprio su questa questione che si giocherà la partita tra Meiko e Naruo che, senza svelare di più sull’intreccio, sarà un delicatissimo e commovente affresco esistenziale, un ritratto generazionale ed epocale che non potrà lasciare indifferente ogni lettore che accetterà di farsi trascinare nei panni dei suoi protagonisti.
Inio Asano, con Solanin, si dimostra forse ai massimi livelli all’interno della sua produzione, ponendosi, ancora una volta, come uno straordinario narratore della società giapponese e della liquidità post-moderna del nostro presente. I suoi personaggi, continuamente “in ricerca”, sballottati tra quelli che uno scrittore come Douglas Coupland chiamerebbe “McJob”, vivendo perciò come “freeter”, senza un progetto di vita sicuro, sono l’emblema di una generazione spesso sovra-istruita, forzata ad essere perennemente giovane, cresciuta nel mito utopico della libertà e trovatasi di colpo a doverne sopportare il terribile peso. E’ all’interno di questa insicurezza che sembra pervadere ogni cosa, che affiorano con forza i sentimenti e l’importanza delle relazioni.  Gli slanci di emotività e gli affetti, infatti, finiscono per ergersi ad unica e timida bussola nel mare di nebbia della post-modernità, condizionando le scelte e tracciando i percorsi che ogni protagonista di Solanin, così come capita spesso alle persone nella vita comune, cerca di intraprendere nella speranza di trovare, finalmente, la chiave per essere felice.


Passando ora all’aspetto prettamente grafico, posso dire che Solanin mette in mostra tutta la bravura nel disegno e nella composizione delle tavole tipica di Inio Asano. Il tratto dell’autore è estremamente pulito e realistico, ogni personaggio è caratterizzato in maniera precisa e accurata e gli ambienti brulicano di particolari. Asano riesce ad adattare ottimamente il suo stile ad ogni tipo di situazione, passando dai momenti più concitati a quelli più riflessivi con estrema fluidità. Le inquadrature e le scelte compositive sono di taglio fortemente cinematografico e riescono ad essere sempre espressive ed efficaci, pur non perdendo mai funzionalità per la narrazione.
In conclusione, Solanin è un must per tutti gli amanti di Inio Asano, ma anche per tutti quelli che vogliono leggere un manga di qualità, complesso e stratificato nelle tematiche e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi, ma anche dotato di estrema fluidità nella narrazione e di gradi capacità di intrattenimento. Insomma, un’opera che saprà coinvolgervi, intrattenervi e, sicuramente, emozionarvi.