lunedì 27 gennaio 2014

Old Boy. La potenza universale di una storia essenziale









Propongo qui un breve articolo che ho scritto per www.artspecialday.com su Old Boy


Un uomo, dopo una notte di bagordi, viene rapito. Egli si risveglia in una stanza sconosciuta, senza sapere chi lo ha rinchiuso e perché lo ha fatto. Tutti i giorni, una botola nella porta della stanza si apre e riceve del cibo cinese. Questa routine continua per dieci anni fino a che, un giorno, senza saperne il motivo, viene narcotizzato e poi liberato. Per l’uomo è  l’inizio di una nuova vita, caratterizzata da un solo pensiero: vendicarsi di chi gli ha portato via tutto.
Quest’idea, tanto essenziale, quanto disturbante, è  Old Boy. Una vicenda universale, quasi un patrimonio immateriale, che ha saputo assumere molteplici forme nell’arco degli ultimi 18 anni.
Tutto inizia nel 1996, in Giappone, con il manga di Garon Tsuchiya e Nobuaki Mineghishi, concluso in patria nel’98 e attualmente in ristampa per la J-pop. In seguito, nel 2003, Old boy si fa conoscere al mondo intero grazie al capolavoro cinematografico di Park Chan Wook, ispirato al manga e osannato da Quentin Tarantino. Il film vince il Gran Premio della Giuria a Cannes 2004 e diventa immediatamente un cult. Nel 2013 arriviamo alla seconda interpretazione per il grande schermo ad opera di Spike Lee. Il film è uscito lo scorso 5 Dicembre in tutte le sale italiane.
Old boy è una storia di grande potenza. Essa ci prende per la gola e ci costringe a porci delle domande a partire da una situazione assurda, quasi kafkiana, che però, in qualche modo, sentiamo essere così terribilmente possibile.
Come si reagisce, allora, quando tutto ti è stato tolto senza un motivo? Cosa si cerca in un mondo sconosciuto dopo una vita di prigionia? Quanto odio si può accumulare per una vendetta contro qualcuno che nemmeno si conosce?
A queste questioni, i vari autori che ho citato, hanno cercato di rispondere ognuno a suo modo.
Il manga originale si presenta come un solido e raffinato thriller-noir. Il protagonista è come un samurai contemporaneo, freddo e calcolatore, che ha un unico obbiettivo: la vendetta. L’Old Boy di Tsuchiya mette  in scena il classico gioco “sadico”,  tipico di tanta narrativa nipponica, che tende a svilupparsi sulla psicologia dei personaggi, qui tratteggiati in maniera esemplare. Il disegno di Mineghishi è pulito e sicuro, quasi calligrafico. Ricorda il tratto essenziale del Naoki Urasawa di Monster (1994), un altro capolavoro del thriller made in Japan . Tutto, nonostante la violenza e la follia della situazione, appare controllato in maniera maniacale.



Al contrario dell’opera cartacea, il film di Park Chan Wook mette in scena un incubo allucinatorio, dove la violenza e la visceralità della reazione del protagonista sono gli elementi portanti. La vedetta è una corsa affannata attraverso un vortice di passioni malate, dove anche l’amore diventa cattivo e gli impulsi bestiali emergono prorompenti. Tutto è accompagnato da una colonna sonora che toglie il fiato e da uno stile di regia claustrofobico e asfissiante, che non esita ad indugiare sui particolari più cruenti. Un cinema che ti si conficca nel profondo dell’anima, come un martello piantato nel cuore.
Il remake di Spike Lee porta, invece, la vicenda negli Stati Uniti. L’atmosfera abbandona la brutalità dell’operazione di Chan Wook e il film assume un tono a metà tra thriller e noir , simile a quello del manga. Il tema della vendetta perde la sua pregnanza, lasciando maggior spazio al melodramma e ad un sorta di indagine interiore. Il tutto si intreccia con numerosi riferimenti ideologici e moralistici, rispetto ai quali Spike Lee non è di certo nuovo.  L’interpretazione di Lee perde, perciò, molta della tensione allucinata del primo film, ma anche della terribile freddezza del manga. A mio parere è un remake di cui non si sentiva davvero il bisogno e, nonostante gli sforzi del regista, la potenzialità dell’idea di Old Boy ne risulta fortemente mutilata. 



Il mio consiglio è quindi di lasciar perdere quest’ultimo remake e, se non lo avete ancora fatto, recuperare sia il manga, che il bel film di Park Chan Wook.
 Old Boy è, prima di tutto, una parabola che ci parla dei nostri istinti più basilari e ci mette alle strette davanti alla nostra natura. Raccontarla vuol dire prendersi coscienza della sua portata universale e il film coreano e il manga giapponese, pur mettendo in scena due modi di vedere la vendetta totalmente differenti, riescono a prendersi in pieno questa responsabilità.

domenica 26 gennaio 2014

Il saldatore subacqueo

Un uomo qualsiasi e il viaggio nell'abisso della sua coscienza. Tra mistero, fantascienza e dramma psicologico, Jeff Lemire, torna ad indagare l'animo umano, questa volta mettendo al centro la riflessione sulla paternità, tra i fantasmi della memoria e l'ansia per le responsabilità future.




Essex County è sicuramente una delle letture più interessanti che ho fatto nel 2013. Era la prima opera che leggevo di Jeff Lemire, ma, da quello splendido incontro, mi sono promesso di seguire con assiduo interesse la sua produzione. Spero di riuscire a leggere a breve Sweet Tooth, vorrei recuperare Signor Nessuno e aspetto con ansia l'uscita italiana di Lost Dogs. Nel frattempo ho avuto il piacere di leggere Il saldatore subacqueo, edito ancora una volta da Panini 9L.
Jack Joseph è un saldatore subacqueo in un impianto di trivellazione a largo delle coste della Nuova Scozia. La sua vita è tutto sommato banale e tranquilla: ha una casa, un lavoro, è sposato e la moglie aspetta un figlio. Tuttavia, arrivato alla notte di Halloween, dopo essersi immerso per lavoro come tante altre volte, succede qualcosa di strano. Forse un'allucinazione. Forse Jack è entrato in contatto con qualcosa di sovrannaturale. Forse è solo un pò di stress. Fare il saldatore subacqueo è molto duro, bisogna sopportare enormi pressioni e Jack lavora tantissimo, inoltre si avvicina l'enorme responsabilità di diventare padre. Tutte queste sembrano ipotesi possibili, fatto sta che l'equilibrio psichico di Jack si fa sempre più instabile e il rapporto con la moglie, di conseguenza, inizia ad incrinarsi sempre di più.
Le ansie e le paure di Jack legati alla paternità iniziano a mescolarsi con i pensieri della sua infanzia. Il protagonista inizia a riflettere. Si guarda allo specchio e vede suo padre. Lui ha la stessa età di suo padre, un uomo gentile e di buon cuore, ma alcolizzato, scomparso quando Jack era ragazzino. Forse, allora, è questo che lo tormenta, il ricordo doloroso di una perdita.Questo ricordo, quest'immagine infelice è forse arenata nel fondo del subconscio di Jack, come quella di un orologio da polso in fondo al mare che misteriosamente tormenta i suoi pensieri.
Più si prosegue con la trama, più il confine tra realtà e immaginazione si fa labile. Inizia un sogno ad occhi aperti, dove presente e passato si mescolano in un precipitato di eventi significativi, di immagini oniriche e surreali. Ciò porterà Jack a fare finalmente i conti con la figura del padre e, nello stesso tempo, a prepararsi lui stesso alla paternità.


E' difficile etichettare il Saldatore subacqueo con un genere narrativo preciso. Lemire si muove tra thriller, mistery fantascientifico e dramma psicologico. Nella prefazione, Damon Lindelof, paragona l'opera ad una puntata di Ai Confini della realtà e, in effetti, possiamo dire di essere di fronte ad una vicenda che crea un' aura fortemente surreale e ipnotica. Le situazioni si sgretolano, i luoghi diventano metafore, tutto assume un apetto allucinatorio che ricorda, per certi versi, la produzione di David Lynch, pur non lasciandosi andare a picchi di visionarietà estrema.
L'autore affronta il tema della paternità partendo dal suo protagonista per poi muoversi in due direzioni differenti. Il figlio in arrivo, prospettiva futura, diventa l'evento scatenante per l'inizio di un viaggio a ritroso da parte di Jack, che sarà costretto a far nuova luce sul rapporto con suo padre e, soprattutto, con l'immagine che gli è rimasta di lui. Il protagonista si sdoppia numerose volte, rivive la sua vita da bambino, la fa correre parallela alla sua e la mischia con quella del padre, sovrapponendo i piani e confrontandoli.
Andare a fondo di un ricordo perduto, perdersi negli abissi e poi risalire. Questo sembra dirci Lemire, con la sua consueta fluidità e schiettezza narrativa. L'acqua simbolo di vita è, nello stesso tempo, pulsione di morte, forza che ti schiaccia fino a toccare il fondo, l'unico luogo dove forse si può trovare la solitudine necessaria per  pensare, confondersi e poi ricomporre le idee.




Passando al disegno, l'autore come di consueto ci regala un ottimo lavoro. Il tratto è secco, graffiato, a volte abbozzato, ma sempre molto espressivo. Come già in Essex County, anche in quest'opera, l'espressione delle emozioni è spesso affidata agli sguardi dei personaggi, ai particolari apparentemente insignificanti e agli "zoom" che si concentrano su una caratteristica per poi trasmutarla nella scena successiva. Molte volte sembra che Lemire abbia in mano una macchina da presa e riesca a tramutare le immagini riprese su carta, in sequenze dal taglio fortemente cinematografico.
Altra analogia con Essex County è l'importantissimo ruolo svolto dal paesaggio. Come la contea di Essex, vero e proprio palcoscenico e protagonista aggiunto delle vicenda, anche qui, la desolata cittadina della nuova scozia, con le sue strade deserte e i suoi edifici malinconici, diventa l'espressione della situazione interiore del protagonista, così come i profondi e oscuri fondali marini.
Per concludere, Il saldatore subacqueo è l'ennesima prova d'autore di Jeff Lemire, che continua a dimostrare la sua eccelsa capacità narrativa e la sua capacità di indagare l'animo umano con una padronanza del medium fumettistico davvero straordinaria.
Non posso dunque che consigliare quest'opera a chi già conosce e apprezza l'autore, ma anche a chi, semplicemente, è interessato a leggere e farsi emozionare da una storia complessa e adulta, realizzata con grande originalità e perizia tecnica.


lunedì 20 gennaio 2014

La famiglia più irriverente d’America si inchina a Miyazaki








(Ripropongo qui sul blog il mio articoletto per la citazione di Miyazaki in una delle ultime puntate dei Simpson, gia pubblicato su www.Artspecialday.com anche se un pò ritardo)


I Simpson, la celeberrima creazione di Matt Groening, può essere considerata come una specie di cartina tornasole della cultura pop degli ultimi 27 anni. La famiglia più irriverente d’America, nella sua storia che si avvia ormai a ricoprire ben tre decenni, ha saputo, infatti, ospitare nei suoi episodi una quantità infinita di riferimenti. Un vero e proprio caleidoscopio della società e dei suoi prodotti, soprattutto di quella “a stelle e strisce”. 

Film, personaggi, mode, stereotipi, serie tv, libri, avvenimenti storici: sulla graticola dell’acuta ironia espressa dagli abitanti di Springfield ci è finito davvero di tutto, tuttavia le citazioni cinematografiche sono sicuramente tra le più presenti.

Per un amante del cinema e un fanatico dei Simpson come me, ogni volta che la genialità degli autori riesce a trasfigurare nel “mondo dei gialli” immagini e personaggi del grande schermo, è sempre una meraviglia. Mi basta pensare ad uno dei classici speciali di halloween e già mi viene in mente un Homer/ Jack Torrance, degno del grande Nicholson, scorrazzante per un cartoonesco  Overlook Hotel, con tanto di ascia e scena cult del faccione stralunato in mezzo alla porta. Per non parlare dell’intera puntata dove il tanto geniale, quanto psciotico,  Telespalla Bob, sostituendo la sua rossa acconciatura palmizia all’impomatata di De Niro, si improvvisa Max Cady in una splendida parodia di Cape Fear di Scorsese.

Si potrebbero scrivere non so quante pagine cercando di elencare tutti i film che vengono citati: dal Padrino agli Intoccabili, da Intrigo internazionale a Taxi Driver e poi: Full Metal Jacket, Apocalypse Now, E.T, Star Wars, Non è un paese per vecchi, Psyco, Scarface, Dracula, Arancia Meccanica e chi più ne ha più ne metta.





Al già traboccante pentolone di citazioni filmiche della serie di Groening, direttamente da una delle ultime puntate trasmesse negli Usa, si aggiunge anche un mash-up tratto dalla filmografia del grande sensei Hayao Miyazaki.

In una sequenza da un minuto e quarantacinque, Homer e un suo amico, completamente ubriachi, sono preda di allucinazioni notturne alquanto particolari. La città, all’improvviso, si popola di strane creature ed eccoci, inaspettatamente, scorrere davanti agli occhi alcuni tra i personaggi più famosi del mago dell’animazione giapponese.

Il mitico autista del pulmino della scuola, Otto, si trasforma nel meraviglioso gatto-bus de Il mio vicino Totoro, le arcifumatrici Patty e Selma appaiono in una versione  non proprio graziosa di Kiki, mentre il Jet Market di Apu, tra sbuffi e congegni meccanici, diventa un Castello errante. Tutto intorno si respira l’atmosfera della Città incantata e presto fa capolino anche Senza Volto, la memorabile figura dalla maschera bianca e rossa affezionatissimo alla piccola Sen, protagonista del capolavoro del 2001.





I Simpson, pur con l’ironia che li contraddistingue, rendono omaggio con questo stralcio di puntata a Miyazaki, fresco di pensione dopo la presentazione di “Si alza il vento”, quello che probabilmente sarà (purtroppo) la sua ultima  fatica cinematografica. A differenza di tante altre citazioni, il tono generale di questa appare molto più solenne, quasi a mostrare il rispetto per la carriera e le opere di un autore che ha segnato in modo indelebile la storia del cinema e dell’animazione.

E’ il saluto reverenziale di un mostro sacro all’altro. Matt Groening e Hayao  Miyazaki si incontrano grazie alla malleabilità e alla genialità citazionista della creazione del primo, che, tuttavia, non può fare a meno di risplendere, anche solo per poco, di tutta la magia, la fantasia e il romanticismo fiabesco di quella del secondo. 



sabato 18 gennaio 2014

End Elisabeth

Morte, gioventù, religione, profezie e misteri in un primo numero che intriga ed affascina.
 


Una bambina morta a 13 anni, un collegio religioso, animali chimerici, un giardino incantato, strane premonizioni, visioni e presenze, aggiungiamo un'atmosfera gothic-medievaleggiante, romantica ed anche un pò dark ed abbiamo messo le fondamenta per una fantastica horror story. End Elisabeth, tuttavia, è molto di più. Nel primo volume Barbara Canepa riesce a tessere un intreccio articolato ed accattivante, che immerge il lettore totalmente nella sfortunata vicenda della piccola Elisabeth. Molti interrogativi si aprono e ne risulta una panoramica frammentata della vita della ragazza, percepiamo la relazione con la sorella Dorothea, anch'essa custode di un segreto. All'interno del collegio religioso intuiamo così durante il primo volume intrighi e segreti, tuttavia nulla si svela. I disegni realizzati con Anna Merli ci accompagnano in atmosfere tetre e splendide allo stesso tempo. Bellissimo è il giardino dove vive Elisabeth, dominano i colori freddi in quella che ci sembra una serra degna della Londra del 1800. I personaggi subiscono un influsso manga nel disegno e si contrappongono a questi sfondi puntigliosamente realistici. L'influsso romantico anglosassone si evidenzia nella trama come nelle ambientazioni, che non possono non farci pensare ai dipinti di Constable. Bellezza e paura si fondono nel sublime.



Particolarmente azzeccata quindi è la scelta della Bao Publishing di realizzare un edizione lussuosa con copertina rigida e grande formato, capace di enfatizzare la cura grafica del volume e la raffinatezza del disegno. I toni crepuscolari vengono esaltati, così come i chiaroscuri. Particolarmente notevole è anche la conclusione del volume dove si riporta in parte celata la lettera di Elisabeth alla sorella, scritta a mano, accerchiata da oggetti famigliari ricostruiti, fotografie incorniciate ed oggetti. Torniamo quindi ad un tempo antico ed anche le due autrici sono presentate bambine all'interno di piccole cornici dettagliate e decorate. Viene riservata la cura tipica dei volumi autoconclusivi a questa che invece si imposta come una serie da sviluppare.

Per concludere End Elisabeth è un volume davvero consigliatissimo, le autrici riescono in un solo, non troppo lungo, volume ad impostare le basi per una storia accattivante che non può non spingerci ad attendere con trepidante ansia la lettura del secondo volume, da cui possiamo aspettarci di tutto!   

mercoledì 15 gennaio 2014

UnaStoria

"Se il diciottene si svegliasse di colpo una notte. Si alzasse ed allo specchio si vedesse, con la faccia, con la pelle dei suoi futuri cinquant'anni, morirebbe, vomiterebbe. Ma invece, scivolando secondo dopo secondo, per anni e poi decenni, sempre distratto da altro, un giorno, non più diciottenne, ello si alzerà, andrà allo specchio del bagno e si vedrà mica male per quel momento. Mica male, penserà, per avere gli anni che ho.....
Malevola tanto è la natura, quanto amorevolmente protettiva la nostra cecità"




Unastoria è il primo libro di Gipi che leggo e questo autore mi ha già colpito come un tremendo e altrettanto sublime pugno nello stomaco. E' inutile cercare di riassumere la trama, qui si tratta di uno stralcio di vita che non ha un inizio e una fine, un campo aperto sul conflitto esistenziale, che si esprime in tutta la sua potenza poietica in immagini e pensieri che affiorano in superficie, con tutta la loro dolcezza, incertezza e bellezza.
Follia, amore, dolore, attaccamento alla vita, lo scorrere del tempo e l'avvolgerci dello spazio, Unastoria, è, prima di tutto, un caleidoscopio degli elementi essenziali che segnano l'essere gettati nel mondo. Esterno ed interno si alternano, si confondono e si dissolvono l'uno nell'altro, così come i due piani temporali in cui la narrazione si sviluppa. In questo modo abbiamo una visione d'insieme che ci attrae e stimola, ma nello stesso tempo, provoca in noi uno strano senso di straniamento e alienazione.




Il lettore, sfogliando le pagine, percepisce costantemente qualcosa di ossimorico, un rapporto stretto tra due cose che dovrebbero stare lontane, dovrebbero escludersi a vicenda, ovvero la disperazione e la bellezza. Unastoria è un elogio della bellezza della natura, della sua fiera resistenza al passaggio del tempo e, al contempo, è la costatazione di quanto questa bellezza sia crudele e faccia ancora più male quando si hanno dentro le tenebre. La consapevolezza di qualcosa d'altro, di qualcosa di diverso dal dolore, è ciò che ci impedisce di accettare la nostra condizione misera. La possibilità logica che ci fa dire "le cose sarebbero potute andare diversamente" è la causa dei nostri rimorsi, della ricerca di qualcosa che plachi la caduta nel baratro, come, ad esempio, una vecchia storia in cui rifugiarsi per trovare un pò di speranza, anche se agli altri, di questa, non frega proprio nulla.




La condizione umana viene espressa in tutta la sua orribile e bellissima condizione. Il peso dell'esistenza viene presentato in modo dolce e terribile, come lacrime che lente e sinuose scavano solchi nel viso. La natura è il grande palcosecnico dove l'uomo lotta e soffre, ma essa è indifferente. Come un grande albero secolare si erge al centro del mondo, mentre gli uomini vivono, amano, si fanno del male e muoiono. La rappresentazione del tema dell'indifferenza della natura in quest'opera, raggiunge una potenza devastante.



Passando al piano stilistico, Unastoria, si presenta come un vero e proprio flusso di coscienza di registri linguistici e grafici. Si va dalla narrazione in terza persona, al dialogo, al monologo interiore, al linguaggio poetico e l'aspetto calligrafico dell'opera rispecchia costantemente questa varietà. Dal punto di vista delle tavole continua l'impressione di un fluire di intuizioni continuo. Ecco che  allora la follia si fa scarabocchio confuso, i lineamneti dei personaggi raggiungono livelli di precisione differente a seconda del momento e la natura si staglia sublime in grandi tavole di impatto visivo notevolissimo. A tutto questo contribuisce un uso davvero originale del colore, che va dal bianco che riempie le figure abbozzate dal tratto sottile della penna, ai colori freddi e sporchi della guerra, dal rosa soave di un collo femminile che sembra un ancora di salvezza fino alle splendide tavole acquarellate dei paesaggi.





Per concludere, Unastoria, è un'opera che emoziona come poche. In poco più di un centinaio di pagine raggiunge una potenza espressiva e comunicativa straordinaria, una forza che non può non colpire il lettore nel profondo, facendolo, allo stesso tempo, ripiegare su se stesso e volgere lo sguardo a ciò che lo circonda.
Consigliato a chiunque.



lunedì 13 gennaio 2014

Dall'uomo meccanico Futurista al Cyborg

Un viaggio che parte dai robot futuristi fino al cyborg, ibrido genetico e modello estico attuale.


Macchine e uomini. Due poli di una relazione che è sempre prolifica di nuovi interrogativi. Film, libri, fumetti analizzano  questa continua compenetrazione, dove il limite tra natura e cultura è continuamente sfumato e incerto. La nostra quotidianità ci dimostra costantemente quanto il nostro rapporto con la tecnologia sia sempre più sinergico. I cellulari, o meglio gli smart phone, sembrano essere diventati vere e proprie appendici del nostro corpo. La bio-tecnologia procede verso l'assimilazione di tecnologie sottocutanee, bios e cyber, due concetti che insieme sembrano ossimorici si intersecano, in un legame ricco di prospettive fantasiose e di traguardi incerti. Eppure quando parliamo di robot, di cyborg non può non balenarci un sorrisetto malizioso sul viso. Si, certo certo, ora mettiamoci pure a pensare che tra vent'anni tutti saremo metà robot e che terminator verrà in mezzo a noi!!! Eppure queste idee entusiastiche o pessimistiche che in qualche modo legano l'uomo alla macchina, alla tecnologia, le idee di ibridazione biologica sono intorno a noi. Forse la parola ci fa ancora sorridere, ma questa immagini ci circondano, impregnano il nostro mondo e dominano la nostra estetica contemporanea. Non sono fulmini a ciel sereno, ma permeano la nostra cultura da decenni nonostante trasmutino sotto differenti spoglie.



Fin dalle prime mosse del futurismo, Marinetti aveva elaborato le sue teorie dell’arte meccanica e le proiezioni immaginarie dell’uomo macchina. “Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono le ali”[1]. Nel romanzo Mafarka, nel 1909, Marinetti immagina un re africano che riesce nell’impresa di fabbricare da sé un figlio meccanico, frutto di pura volontà. Queste idee si collegano nel pensiero futurista, all'interpretazione della filosofia di Nietzsche dell’oltre-uomo, un essere capace di andare al di la dell’uomo diventando un nuovo essere. Le macchine infatti riescono ad aumentare le capacità umane ed a moltiplicare l’uomo, a questo proposito Fedele Azari, nel manifesto Per una Società di Protezione delle Macchine, scrive: “La macchina ha arricchito la nostra vita, la macchina ha moltiplicato la nostra esistenza, la macchina ha distrutto le distanze, la macchina ha aumentato il nostro tenore di vita”[2] ed ancora “La macchina essere vivente. Noi già sentiamo in questi primi esseri della generazione futura, non solo l’innegabile principio di vitalità ma anche un embrione di vita-istinto e di intelligenza meccanica, proiettate in essi dall’inventore che le creò ma che diventano quasi autonome appena la macchina comincia a muoversi ed operare per conto proprio sia pure sotto la guida e il freno dell’uomo”[2]. La macchina diventa nel futurismo il simbolo della perfettibilità, dell’immortalità, “l’uomo moltiplicato che noi sogniamo, non conoscerà la tragedia della vecchia!”[3], ed ancora “noi aspiriamo alla creazione di un tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità onnipresente”[3], scrive Marinetti nell’opera L’uomo moltiplicato e il Regno della macchina. Questa visione si realizzava ad esempio nei dipinti di Severini sul tema del Tango, nella macchina Compositrice di Balla o nei pupazzi plastici di Depero.
Nel primo dopoguerra il tema viene sviluppato dai vari artisti in modo molteplice, ogni artista leggeva le compenetrazioni tra la natura meccanica e quella umana secondo la propria sensibilità. In generale esaltante o angoscioso che fosse, il tema dell’identificazione dell’uomo con la macchina percorse tutto il movimento, lasciando molteplici segni, ma non si limitò a questo. Rappresenta infatti una tematica che arriva ai giorni odierni ed attraversa quindi tutto il ‘900. Nel 1920 Marinetti pubblica in italiano il dramma Elettricità sessuale, nel quale un uomo ed una donna si sdoppiano in due robot elettrici. Sempre nel 1921 Andrè Deed realizza il film L’uomo meccanico creando forse la prima rappresentazione al cinema del tema del robot. Riprendendo le idee espresse da Marinetti, egli realizza uno dei primi film di fantascienza, contribuendo in modo significativo alla nascita di questo genere cinematografico. Nella produzione si vede come la macchina permette il superamento della dimensione umana, alla fine anche lo scontro tra il bene ed il male viene impersonato da due enormi robot che lottano. Il tema invade anche i filmati comici, ad esempio nello sketch del 1921 di Fortunello, rappresentato da Petrolini già nel 1914, molto vicino alle tematiche futuriste, si vede la macchietta dell’uomo meccanico, il cui cappello era costituito da un camino di locomotiva che sbuffava in continuazione, attraverso gli abiti di scena si creavano i primi ibridi umani. Tuttavia è nei balletti meccanici che il tema dell’uomo macchina trova la maggior rappresentazione. Sul palco il corpo-macchina non rappresenta solo la scommessa di una nuova estetica, ma è l’illustrazione della necessità di ridefinire l’uomo all’interno della società industriale. I balletti meccanici trasformano il corpo-macchina nella vacillante proiezione di un sogno di potenza accompagnato però da risa. Essa al contempo è burattino e superuomo. Tuttavia queste opere mostrano chiaramente come l’uomo moderno non possa fare a meno della macchina. Nel Balletto meccanico futurista del 1922, di Paladini e Panneggi, si mostra come il protagonista fonda in se la parte umana e quella meccanica, che sono al contempo complementari ed opposte. Rappresenta un uomo del futuro ambivalente che umanizza la macchina e sovverte la dimensione umana per identificarla con lo splendore incorruttibile della macchina. Sempre in questi anni, più precisamente nel 1926, nel film Metropolis Fritz Lang (fortemente collagato all’espressionismo tedesco coevo che ne domina il linguaggio, si collega certamente anche all’avanguardia futurista e si pone in continuità nella tematica dell’uomo macchina) fa un passo oltre mostrando come i robot possano assumere la forma umana arrivando così ad un ulteriore punto di connessione di queste due realtà.



Tuttavia queste visioni rimangono a lungo casi isolati. Negli anni ’50 l’idea di robot umanoidi, alias androidi o replicanti fanno capolino nei racconti di Asimov e qualche anno dopo in quelli di Dick, tuttavia raggiungeranno l’apoteosi celebrativa nel 1982 con l’uscita di Balde Runner ed attraverso le produzioni CyberPunk. Prima di questo film infatti i cyborg, nell’ambiente cinematografico, avevano ancora un aspetto che li apparentava molto ai robot, goffi e vagamente antropomorfi. Erano ancora la ripresa iniziale di quelle idee che immaginavano una possibilità di unire realtà umana e meccanica. Sempre alla soglia degli anni ‘80, anche il mondo dei fumetti risentiva di queste influenze. Particolarmente interessante fu l’opera Ranxerox di Stefano Tamburini, il protagonista infatti è un robot creato attraverso l’assemblaggio di parti di fotocopiatrici, ma dall’aspetto totalmente umano. Da qui lo sviluppo dell’idea del cybor arriva fino a noi passando dalle prime sperimentazioni dove i processi di fusione risultavano imposti (come nel fumetto appena citato o in Robocop o Terminator) ad una visione più naturale dell’innesto, più spontanea e dalla elettromeccanica, rappresentata anche dai futuristi, alla genetica. 



Blade Runner introduce l’idea di cyborg, il cui corpo si integra con la tecnologia non per operazioni chirurgiche o di produzioni ad alta tecnologia, ma per un risultato spontaneo di un processo sociale, di una particolare configurazione del flusso comunicativo. Anche in Videodrome di David Cronemberg, nel 1983, l’ibridazione uomo-macchina deriva da un processo “spontaneo”. La società attraverso i nuovi media genera l’ibrido direttamente nella sua quotidianità, durante il canonico funzionamento. Attraverso un segnale, appunto il Videodrome, che si insinua clandestino ed a bassa frequenza nasce la dimensione mista antropo-tecnologica. 



Essenzialmente quindi il cyborg rappresenta l’essere potenziato ed in queste produzioni il processo diventa naturale, spontaneo, come uno stadio evolutivo, in questo senso si pone in continuità con le idee dei futuristi di corpo-meccanico e “superuomo”. Questo concetto è fondamentale nella nostra contemporaneità dove le possibilità tecnologiche che rendono possibile l’assemblaggio di parti artificiali e naturali, non riguardano pure fantasie, ma la quotidianità. Le protesi costituiscono infatti una sostituzione di “normali” funzioni mancanti all’interno del corpo, permettendo quindi possibilità “normali” e non potenziate. Si assottiglia decisamente il confine tra umano e post umano, ma rimane una differenza tra cosa considerare ancora totalmente umano e cosa invece un cyborg. Esso non è il frutto di assemblaggio, ma si ibrida anche senza l’invasione di corpi esterni attraverso manipolazioni e programmazioni sul codice genetico, assume quindi un “interfaccia genetica” come nello stesso Videodorme, nel Neuromante di William Gibson o in eXistenZ del 1999 di Cronemberg. In quest’ultimo troviamo un gioco artificiale vivo a cui si accede connettendovisi tramite un Game-Pod fatto di carne sintetica ed una Bioport innestata nella spina dorsale dei giocatori, che quindi diventano un umano modificato, un cyborg. Questa connessione è a livello neuronale e permette una simbiosi tra uomo e gioco nel quale egli ha infinite possibilità ed è uguale a se stesso ma “potenziato”.
Come già detto questa è una tematica molto attuale ed ancora in evoluzione in svariati campi. Sicuramente la cinematografia rappresenta un terreno fertile ma non mancano tracce ed influenze nella letteratura, nei fumetti ed anche nella moda, faremo quindi qualche esempio recente.





Nel film giapponese Tetsuo-the bullet man di Shinya Tsukamoto, del 2009, il protagonista, Anthony, dopo la morte per assassinio del figlio Tom subisce nel giro di poche ore una trasformazione che lo muta in una potentissima arma distruttiva. La metamorfosi si scopre essere dovuta ad esperimenti eseguiti su Anthony da piccolo volti alla creazione di esseri perfetti, metà umani e metà artificiali. La trasformazione si innesca ed emerge da sotto la pelle del protagonista, non attraverso innesti esterni, come un processo naturale di fortificazione del soggetto in seguito al lutto. Questo caso si relaziona al discorso evolutivo fatto sul cyborg. Si ritrova quindi un legame anche se frutto di un evoluzione che ha inserito una molteplicità di altri elementi con l’idea dell’uomo che si potenzia attraverso la tecnica già espressa agli albori nel futurismo. Nel film Io Robot di Alex Proyas del 2004 le macchine si rendono antropomorfe e sembrano rappresentare l’intelligenza artificiale al servizio dell’uomo sognata da alcuni futuristi, vivono in simbiosi con gli umani e ne moltiplicano le possibilità. Certamente lo sviluppo successivo del film si stacca e risente di quella paura diffusa che agli albori era solo uno spettro, anche se comunque presente, di una degenerazione del potere della macchina, che prende il sopravvento per differenti motivi, in questo caso eccessiva protezione. 





Questa ibridazione fa capolino anche nel mondo dello spettacolo, il video Bad Romance di Lady Gaga offre differenti spunti in questo senso (anche se non è il solo dato che tali tematiche si ritrovano in molti dei suoi videoclip). Un primo elemento rimanda sicuramente ai balletti meccanici, le ballerine trasmutano attraverso i movimenti ed i costumi in una sorta di cyborg/androidi. Si inserisce l’idea del mostro in relazione anche alla tematica della chirurgia plastica e la modificazione artificiale del corpo, i risultati della mutazione infatti non hanno più volto sembrano ibridi trasmutati geneticamente, dalle movenze meccaniche, gli abiti plastici, metallici, mobili e trasformabili.

Quella che inizialmente era l'idea di una fusione meccanica di uomo e macchina, si è evoluta nel '900 fino ad arrivare a noi sotto le spoglie di un ibrido biotecnologico, che quasi non riconosciamo più come non umano. L'idea del cyborg, dell'individuo che supera il livello biologico attraverso la tecnologia, seppur inconsciamente, è già assodata nella nostra cultura, celata sotto un'estetica futurista, la chirurgia plastica e gli interventi medici. Insomma, forse i cyborg sono già in mezzo a noi o forse siamo noi, forse dobbiamo solo smettere di immaginarli come un esercito di Agenti Smith e pensarli un pò più simili a noi, perchè, probabilmente, è proprio così.

Note:
[1]_F. T. Marinetti, L’Uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, 1910.
[2]_F. Azari, Per una Società di Protezione delle Macchine, 1927.

[3]_F. T. Marinetti, L’Uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, 1910.

venerdì 10 gennaio 2014

La leggenda delle nubi scarlatte 1-2

 Nubi di sangue, nubi di sangue, la predizione funesta si compie



L'atmosfera del Giappone feudale mi ha sempre affascinato molto. Parlo di "atmosfera del giappone feudale" nel senso di quell'immagine mitica che ho appreso, quasi per osmosi, da libri, anime, fumetti, film etc etc. Figure come quella del samurai, del monaco, del ronin, dei kami, gli spiriti della natura, piuttosto che degli shogun o degli oni, mi sono rimaste impresse nella mente come un mondo fantastico, che per me ormai non assume quasi più nessun connotato storico, essendo traslato completamente in un aura mitica, alla quale sono davvero affezionato.
Detto questo, quando ho scoperto l'esistenza di un fumetto come "La leggenda delle nubi scarlatte" di Saverio Tenuta ho pensato subito che sarebbe stato un acquisto a me molto gradito e vedendone qualche tavola su internet, è diventato presto un elemento fisso della mia "lista della spesa". Finalmente è entrato a far parte delle mia libreria sotto le feste di natale e la lettura si è rivelata un'esperienza meravigliosa.



L'opera è formata da due volumi e ci racconta una storia epica, poetica e spietata.
Il primo personaggio che ci viene pesentato è Meiki, una govanissima marionettista del teatro Bunraki, che a poche pagine dall'inizio della lettura, si trova innamorata e indissolubilmente legata ad un samurai, Raido, privo di memoria e apparentemente custode di un oscuro passato. I destini dei due si incroceranno con quelli di tanti altri personaggi e con quello di un piccolo mondo sull'orlo della catastrofe. Le vite degli uomini si intersecano con gli spiriti naturali, forze primordiali sembrano ribollire tra i sentieri delle esistenze individuali. Un reticolato di eventi, sentieri, riflessioni, versi  poetici,che, piano piano, ci schiudono la via di un viaggio che ci condurrà alla scoperta del passato dei protagonisti. Ricordi dolorosi, che, come traumi nascosti, aspettano di riaffiorare per essere espiati e poter guardare avanti. In La Leggenda delle nubi scarlatte abbiamo a che fare con la follia, intesa come la lotta della psiche umana  con forze superiori, qualcosa che si impossessa della mente, come una cantilena interiore che rimbomba con forza nella testa e non da scampo, fino a che non si trova la via giusta per uscire da quel labirinto perverso che attanaglia il pensiero. Raido è bombardato da frasi a cui non sembra possibile dare spiegazioni, sono come cicatrici di un passato lontano, che aspettano solo di riaprirsi per poi riuscire a guarire con la consapevolezza della memoria.



Il mondo dipinto da Tenuta è un Giappone spietato, a metà tra lo storico e il fantastico, dove l'esplosioni di sangue sui corpi delle persone, così come nel capolavoro Hana-Bi di Takeshi Kitano, sono petali cremisi che cadono in un paesaggio dominato dal bianco della neve. Le grandi foreste innevate e le candide pianure fanno da contraltare ai colori caldi degli interni e alle tinte forti degli scontri. La visceralità delle passioni umane contro l'equilibrio e la saggezza della natura, che si mostra in tutta la sua grandezza e nobile potenza, non solo negli atti di forza, ma anche nella sconfitta. ( stupendo, a questo proposito, è il combattimento di Raido con il grande Izuma Nero, il signore degli stupendi lupi tratteggiati da Tenuta come guardiani della foresta di ghiaccio).
L'autore ha una capacità incredibile di destreggiarsi tra i vari tipi di situazione. Il suo tratto è estremamente fluido e dinamico nelle scene d'azione, diventa, invece, preciso e poetico nei primi piani, dove la riflessione è protagonista, per poi esprimere tutta la sua bellezza nei grandi campi lunghi, dove è la natura a farla da padrone, lasciando il lettore a bocca aperta. Certe tavole esprimono un senso di infinito notevole, l'esperienza estetica che si prova è spesso quella del sublime, intesa come la contemplazione di una magnifica grandezza, che, nello stesso tempo, attrae e mette timore.






"Tutto è tracciato, tutto è già scritto, ma nessuno legge nei segni". Questa frase potrebbe riassumere l'intera narrazione. Abbiamo costantemente la sensazione di essere in un disegno più ampio, tuttavia non possiamo che affannarci e addolorarsi insieme ai personaggi, partecipare dei loro incubi e delle loro paure, fino ai punti di massima tensione. Si arriva poi alla liberazione finale, dove il passato viene accettato, le fratture ricomposte e i ghiacci, che congelavano la speranza, lasciano spazio ad un verde che ha il sapore della rinascita.
Per concludere, l'opera di Tenuta è un fumetto dotato di una delicatezza e una profondità davvero straordinaria. Le pagine trasudano di un lirismo poetico tutto orientale, dove il bianco della neve e il rosso del sangue sono paralleli all'amore per la vita e alla violenza che porta alla morte, in un continuo fronteggiarsi di opposti che, in  un dinamico ciclo dialettico, corre verso la sua sintesi.

Un capolavoro che mi sento di consigliare a chiunque.