sabato 10 dicembre 2016

Captain Fantastic



L’utopia che fa i conti con il mondo reale



Un cervo dall’aria quasi circospetta si fa largo tra una vegetazione rigogliosa e selvaggia, mentre occhi misteriosi lo scrutano  attenti e letali. Con la velocità di un attimo fatale sulla gola del cervo si apre un sorriso scarlatto. Quello che rimane è un gioco di sguardi tra chi sta ormai per morire, il cervo e il ragazzo e chi sta per nascere, l’uomo. Captain Fantastic, secondo lungometraggio di Matt Ross inizia così, con un rito di iniziazione che sembra segnare il passaggio definitivo dalla giovinezza all’età adulta, l’atto finale di un percorso educativo giunto al termine. Tuttavia sarà solo la prima tappa di un viaggio fatto di rinegoziazioni, ripensamenti ed affioramento di nuove prospettive.
Ben e sua moglie hanno deciso di crescere i loro sei figli lontano dalla città e dalla società dei consumi, nel bel mezzo di una foresta del Nord America. Sotto la guida tanto illuminata quanto autoritaria del padre, i ragazzi, tra i 5 e i 17 anni, passano le giornate allenando duramente il corpo e la mente: imparano a cacciare, a conoscere la natura, a lottare, ad argomentare e disquisire dei più svariati temi (dalla letteratura alla fisica quantistica), sviluppano il senso critico oltre a varie abilità pratiche e creative. Suonano e cantano insieme, festeggiano il compleanno di Noam Chomsky al posto del Natale, smontano i dettami dell’economia e delle politica occidentale, si dicono “determinati dalle azioni e non dalle parole” ed esclamano a gran voce “Abbasso il sistema!”. Quella alla quale assistiamo all’inizio del film è una sorta di utopia, una repubblica platonica post moderna su base anarchico-solidale (siamo in un luogo tra Thoreau, Stirner e Steiner) immersa nel verde e saldamente governata da un papà-filosofo-guerriero. Tuttavia, per lo spettatore, l’idillio dura poco: la madre dei ragazzi, malata psichiatrica e ricoverata da tempo in un ospedale del “mondo reale”, muore improvvisamente. Il triste avvenimento costringerà la famiglia ad intraprendere un rocambolesco viaggio nella “normalità” per rendere l’ultimo omaggio alla madre. Questo farà sorgere dissidi, contraddizioni e sofferenze all’interno del gruppo e porterà Ben a rivedere la sua idea educativa e i suoi figli a ridiscutere la stessa figura paterna.




Il regista, utilizzando i toni e i colori cari alla tradizione della commedia indie americana, ci propone una riflessione a più livelli sull’educazione. Gli ingredienti che a prima vista vengono proposti allo spettatore non sono di certo nuovi: una critica ironica e dissacrante nei confronti di alcuni stilemi tipici della società occidentale, la difficoltà di comunicazione e di relazione tra chi persegue un modello alternativo di vita e la gente “comune”, la famiglia imperfetta che ha bisogno di un viaggio di formazione per far luce sulle proprie dinamiche ed identità interne (qui non c’è il Wolkswagen giallo di Little Miss Sunshine, ma un vero bus di nome Steve). Ross, tuttavia, non si ferma a questo, ma cerca davvero di problematizzare il tema dell’educazione mostrando, non solo quanto il modo di fare occidentale rischi di crescere delle persone ignoranti e prive di senso critico, ma evidenziando anche i rischi di vie contro-culturalmente estreme e fortemente ideologizzate come quella di Ben. I ragazzi infatti, che hanno vissuto in un mondo chiuso e governato dalle idee imposte dal padre, non sono in grado né di comunicare con i loro coetanei estranei a quell’utopia né di comprendere alcune logiche e dinamiche della società in cui sono improvvisamente gettati.   Il padre, inoltre, assume ben presto le sembianze di un ambiguo dittatore-compagno, fautore di una rivoluzione radicale che solo lui ha deciso nei modi e nei presupposti e che sembra perdersi irrimediabilmente nella sua ottusità ideologica. 


La sceneggiatura di Ross è fresca, leggera e intelligente adatta a più piani di lettura, nonostante in alcuni punti si faccia forse un po’artificiosa a fini comico-grotteschi. Sul finale il film assume un tono più  melò (che ha il suo apice nella scena della pira sotto le note di una bucolica e folkeggiante  Sweet Child O’ Mine) perdendo un po’ di leggerezza e stimolando un po’ sornione il lato più emozionale dello spettatore.
Le interpretazioni degli attori sono tutte molto buone, in primis quella di Viggo Mortesen, nei panni di Ben, davvero eccellente nel presentare un personaggio carismatico, contraddittorio e sopra le righe, ma fortemente credibile dall’inizio alla fine della pellicola.
In conclusione, Captain Fantastic è un buon film, leggero nei toni e non eccessivamente profondo e stratificato, ma capace comunque di aprire più piani di riflessione importanti sull’educazione e su alcune dinamiche della contemporaneità, al di là degli slogan e dei luoghi comuni che a prima vista sembra mettere in scena.