sabato 10 dicembre 2016

Captain Fantastic



L’utopia che fa i conti con il mondo reale



Un cervo dall’aria quasi circospetta si fa largo tra una vegetazione rigogliosa e selvaggia, mentre occhi misteriosi lo scrutano  attenti e letali. Con la velocità di un attimo fatale sulla gola del cervo si apre un sorriso scarlatto. Quello che rimane è un gioco di sguardi tra chi sta ormai per morire, il cervo e il ragazzo e chi sta per nascere, l’uomo. Captain Fantastic, secondo lungometraggio di Matt Ross inizia così, con un rito di iniziazione che sembra segnare il passaggio definitivo dalla giovinezza all’età adulta, l’atto finale di un percorso educativo giunto al termine. Tuttavia sarà solo la prima tappa di un viaggio fatto di rinegoziazioni, ripensamenti ed affioramento di nuove prospettive.
Ben e sua moglie hanno deciso di crescere i loro sei figli lontano dalla città e dalla società dei consumi, nel bel mezzo di una foresta del Nord America. Sotto la guida tanto illuminata quanto autoritaria del padre, i ragazzi, tra i 5 e i 17 anni, passano le giornate allenando duramente il corpo e la mente: imparano a cacciare, a conoscere la natura, a lottare, ad argomentare e disquisire dei più svariati temi (dalla letteratura alla fisica quantistica), sviluppano il senso critico oltre a varie abilità pratiche e creative. Suonano e cantano insieme, festeggiano il compleanno di Noam Chomsky al posto del Natale, smontano i dettami dell’economia e delle politica occidentale, si dicono “determinati dalle azioni e non dalle parole” ed esclamano a gran voce “Abbasso il sistema!”. Quella alla quale assistiamo all’inizio del film è una sorta di utopia, una repubblica platonica post moderna su base anarchico-solidale (siamo in un luogo tra Thoreau, Stirner e Steiner) immersa nel verde e saldamente governata da un papà-filosofo-guerriero. Tuttavia, per lo spettatore, l’idillio dura poco: la madre dei ragazzi, malata psichiatrica e ricoverata da tempo in un ospedale del “mondo reale”, muore improvvisamente. Il triste avvenimento costringerà la famiglia ad intraprendere un rocambolesco viaggio nella “normalità” per rendere l’ultimo omaggio alla madre. Questo farà sorgere dissidi, contraddizioni e sofferenze all’interno del gruppo e porterà Ben a rivedere la sua idea educativa e i suoi figli a ridiscutere la stessa figura paterna.




Il regista, utilizzando i toni e i colori cari alla tradizione della commedia indie americana, ci propone una riflessione a più livelli sull’educazione. Gli ingredienti che a prima vista vengono proposti allo spettatore non sono di certo nuovi: una critica ironica e dissacrante nei confronti di alcuni stilemi tipici della società occidentale, la difficoltà di comunicazione e di relazione tra chi persegue un modello alternativo di vita e la gente “comune”, la famiglia imperfetta che ha bisogno di un viaggio di formazione per far luce sulle proprie dinamiche ed identità interne (qui non c’è il Wolkswagen giallo di Little Miss Sunshine, ma un vero bus di nome Steve). Ross, tuttavia, non si ferma a questo, ma cerca davvero di problematizzare il tema dell’educazione mostrando, non solo quanto il modo di fare occidentale rischi di crescere delle persone ignoranti e prive di senso critico, ma evidenziando anche i rischi di vie contro-culturalmente estreme e fortemente ideologizzate come quella di Ben. I ragazzi infatti, che hanno vissuto in un mondo chiuso e governato dalle idee imposte dal padre, non sono in grado né di comunicare con i loro coetanei estranei a quell’utopia né di comprendere alcune logiche e dinamiche della società in cui sono improvvisamente gettati.   Il padre, inoltre, assume ben presto le sembianze di un ambiguo dittatore-compagno, fautore di una rivoluzione radicale che solo lui ha deciso nei modi e nei presupposti e che sembra perdersi irrimediabilmente nella sua ottusità ideologica. 


La sceneggiatura di Ross è fresca, leggera e intelligente adatta a più piani di lettura, nonostante in alcuni punti si faccia forse un po’artificiosa a fini comico-grotteschi. Sul finale il film assume un tono più  melò (che ha il suo apice nella scena della pira sotto le note di una bucolica e folkeggiante  Sweet Child O’ Mine) perdendo un po’ di leggerezza e stimolando un po’ sornione il lato più emozionale dello spettatore.
Le interpretazioni degli attori sono tutte molto buone, in primis quella di Viggo Mortesen, nei panni di Ben, davvero eccellente nel presentare un personaggio carismatico, contraddittorio e sopra le righe, ma fortemente credibile dall’inizio alla fine della pellicola.
In conclusione, Captain Fantastic è un buon film, leggero nei toni e non eccessivamente profondo e stratificato, ma capace comunque di aprire più piani di riflessione importanti sull’educazione e su alcune dinamiche della contemporaneità, al di là degli slogan e dei luoghi comuni che a prima vista sembra mettere in scena.




giovedì 23 luglio 2015

Krishna-Un viaggio interiore

"Perchè esistiamo? Quali sono i nostri desideri? La vita e le sue domande. A volte il loro peso è grave...ma io plano attraverso il mondo degli uomini sulle ali delle loro risposte. La mia storia parla della vita, perchè non è una storia su di me, è una storia sulla speranza"




Nell'ultimo periodo, a causa di alcuni impegni lavorativi, mi sono avvicinato (e appassionato) parecchio alla mitologia. Non che i miti non mi avessero mai interessato, tuttavia, mai come ora, mi era capitato di leggere e analizzare così tanti testi sull'argomento e provarci così tanto gusto. Perciò, forse spinto dall'onda di questa nuova ricerca, insieme al consueto fascino che gioca su di me il mondo orientale e alle ottime parole spese sull'autore e l'opera di cui presto andrò a parlare, mi sono deciso ad andare in fumetteria e prendere Krishna-Un viaggio interiore scritto e disegnato da Abhishek Singh ed edito dalla sempre ottima e lungimirante Bao Publishing.
Il protagonista del fumetto, come facilmente intuibile dal titolo, è Krishna. Quest'ultimo, come gran parte dei personaggi mitici e religiosi, si presenta come un essere di diversa natura a seconda della tradizione nella quale lo inquadriamo. Krishna, infatti, agli occhi di un laico occidentale, appare come un affascinante e antico mito, un personaggio protagonista di vicende in cui il sovrannaturale e il terreno si incrociano continuamente nel grande tempo dei primordi, quello della mitologia. Per un Hindu di corrente Vaisnavita, invece, è uno degli avatar del dio Vishnu, protettore del cosmo e del Dharma, la legge naturale che tutti gli esseri devono accettare e seguire poichè l'universo conservi la sua armonia. Infine, per un Krishnaita, Krishna è l'essere supremo stesso e non una delle sue manifestazioni.


Avendo a che fare con una figura così complessa, che porta con se un infinito bagaglio di storie, tradizioni, culti e interpretazioni, ne risulta che l'opera di Singh metta in scena una vicenda fortemente stratificata e frammentaria, ricca di personaggi, associazioni e situazioni disparate. Gli episodi che ci vengono raccontati non sono certamente inventati dall'autore, ma vengono presi da vari "testi sacri" come il  Mahābhārata e il  Bhagavadgītā,accompagnando il lettore in un viaggio, che pur assumento una sorta di andamento cronologico, mantiene le caratteristiche di un percorso interiore, come un flusso di immagini e pensieri senza tempo, dove la dimensione individuale e quella cosmica si intrecciano continuamente.


Si parte dunque dall'infanzia di Krisha, con la presentazione di un mondo armonioso e idialliaco, dolce e coloratissimo. Il piccolo Krishna è un irresistibile bricconcello pieno di vita e di curiosità. L'infanzia viene presentata come il tempo dell'innocenza e della spensieratezza, dove il mondo è ancora tutto da scorprire. In questa sezione sono memorabili l'episodio in cui Krishna viene sorpreso dalla madre adottiva a rubare il burro e la lotta con il serpente acquatico Kaalia. Nel primo episodio quando Yasoda, la mamma adottiva, cerca di guardargli la bocca piena di burro, vede tutto l'universo accorgendosi, così, di chi fosse il bambino che stava rimproverando. Nel secondo episodio Krishna affronta il serpente Kaalia, reo di avere avvenelato l'acqua del fiume nel quale le mucche del piccolo dio si stavano abbeverando. La lotta si rivela un'occasione per riflettere sulla natura di un essere vivente e sulla necessità per ognuno di seguire il suo Dharma, senza, tuttavia, cedere alla malvagità.
Dopo la dolcezza dell'infanzia, Singh ci presenta la triste storia dei genitori di Krishna, maltrattati dal malvagio Re Kamsa e la conseguente vendetta del giovane Krishna, la passione amorosa per la bella pastorella Radha, la storia della nascita della nascita del dio e, infine, l'epica battaglia di Kurukshetra. Quest'ultimo episodio, espresso con tavole di una potenza visiva devastante, mette in scena la lotta tra i principi Pandava e gli usuraptori del loro regno, i Kaurava. Krishna, essendo imparentato con entrambi le fazioni, deciderà di non schierarsi con nessuna delle due ma di far scegliere ai loro due rappresentanti tra la sua presenza e il suo esercito. Arjuna (Pandava) sceglierà la sua presenza e Krishna sarà dunque il cocchiere del suo carro da guerra, mentre Duryodhana sceglierà il suo esercito. Arjuna, prima dell'inizio della battaglia sarà in preda ad un turbine di dubbi esistenziali e morali, trovandosi di fronte come avversari una schiera composta dai suoi parenti più stretti. A tal punto Krishna infonderà coraggio nell'eroe, ricordandogli l'entità del suo dharma di guerriero e mostrandogli la chiave per la realizzazione spirituale. Dopo l'intervento di Krishna, Arjuna trovò la forza per combattere e portare alla vittoria i Pandava.







Krishna-un viaggio interiore è certamente un'opera che risente fortemente della cultura e della tradizione propria del suo autore, ma, come tutte le opere che hanno a che fare con i temi, il linguaggio e le immagini della mitologia, esprime dei concetti e delle riflessioni che hanno l'ampio respiro di un racconto universale. Nel fumetto di Singh il lettore viene a contatto con episodi che parlano delle coordinate base delle esistenza umana: la curiosità e l'entusiasmo per il mondo nell'infanzia, i tumulti e gli amori della giovinezza, la consapevolezza dell'età adultà, la ricerca di un'armonia con il mondo circostante, il tentativo di trovare un senso alla propria vita e il tentativo di inserirla all'interno di un disegno più grande. Per questo motivo, l'opera in questione, attraverso gli episodi della vita di Krisha diventa un "viaggio interiore" non solo nella coscienza narrata del dio, ma anche ( e soprattutto) in quella del lettore, sollevando un comparto di riflessioni e suggestioni che partono contemporaneamente dalla potenza "mitica" ed evocativa dei testi e dall'espressività delle immagini.


Trattandosi di materiale mitico, i testi di Singh hanno costantemente un'aura poetica ed aforistica, a tratti ermetica, ma sempre costantemente illuminante nella loro forza suggestiva e rappresentativa. Tutto questo si coordina alla perfezione con il comprato grafico, nel quale l'autore mostra uno stile davvero complesso e ricercato. Singh fa ampio uso del digitale e delle possibilità grafiche date dal computer senza confezionare un'opera dall'aria fredda e artificiale. Lo stile dei personaggi e degli ambienti risente sicuramente di un'estetica cartoonizzante, ricordando, per certi versi, alcune delle opere più belle della disney/pixar, soprattutto nella resa dinamica delle fasi più concitate. Tuttavia sono presenti anche notevoli influenze della pittura tradizionale indiana, soprattutto nella costante ricchezza di particolari e in alcuni "affreschi" dal tono mistico/sognante, come nella parte dedicata all'amore tra Krishna e Radha, così come qualche accenno ai comics americani, soprattutto, anche qui, nell'impostazione delle tavole nelle scene di combattimento. Oltre agli splendidi disegni, ciò che rende il volume davvero prezioso è la coloritura, fatta di tonalità accese e luminose, con ombreggiature nette e marcate, che colpiscono gli occhi all'istante con un'immediatezza davvero irresistibile. Sfogliando il volume, la percezione del lettore viene spesso invasa dalla ricchezza e meravigliosità dei dettagli che dapprima lo impressiona come uno shock, per poi  incollarlo alla pagina, nel tentativo di ammirare quanta maestria e quanto splendore siano davanti ai suo occhi.


Per concludere, Krishna-Un viaggio interiore, è un'opera notevolissima, sia dal punto di vista narrativo e contenutistico sia da quello prettamente grafico. L'autore mette in scena una vicenda universale, capace di toccare le corde profonde dell'animo umano,appassionare per il suo ritmo e stupire per la sua dimensione poetica e mistica. Il lettore viene condotto in un viaggio alla riscoperta delle linee e delle domande essenziali dell'esistenza, alla ricerca di uno sguardo armonico sul tutto che solo i miti, per la forma e i contenuti che conservano, riescono ancora a dare.

sabato 16 maggio 2015

 Pillole blu

-"Non chiedere che gli avvenimenti succedano come vuoi tu, ma accontentati di volerli come avvengono"
-"Epitteto non aveva l'aids".




Dopo tanto tempo torno a scrivere su questo blog. In questi mesi di assenza il suono dello schioppettio dei tasti sotto le mie dita è stato come un costante e affascinante ronzio. Un richiamo che riportava la mia attenzione su quel momento di libertà estrema, scrivere immerso nei propri pensieri, che troppo spesso nella mia vita attuale mi è negato dal susseguirsi incessante di impegni, lavorativi e non. Torno quindi a scrivere e lo faccio a proposito di un fumetto (strano).
Scegliere un'opera per dare di nuovo voce a questo blog non è stato facile. Dalla pubblicazione dell'ultimo post ne ho letti tantissimi ( di fumetti) e tanti di questi sarebbero meritevoli di commenti e riflessioni profonde ed accurate. Tuttavia, ahimè, da qualcosa bisogna pur ricominciare. Perciò, per facilitare la mia memoria e i miei polpastrelli fuori allenamento, ho deciso di parlare dell'ultima opera che ho letto, ovvero, Pillole Blu di Frederik Peeters.
Dire HIV, dire Aids, dire "sindrome da immunodeficienza acquisita", è come scoperchiare un'enorme vaso di pandora. Un fantasma terribile che aleggia sulla nostra società occidentale, uno spauracchio ormai inserito nell'immaginario collettivo ancor prima di comprenderne la natura, un angelo sterminatore che ogni anno miete milioni di vite, spesso ricordate solo per riempire con cifre catastrofiche qualche pagina di giornale.
L'Aids, per dare una brevissima definizione, è una sindrome nella quale le difese immunitarie del paziente vengono indebolite dal retrovirus dell' HIV, dando origine ad infezioni croniche, scarsamente sensibili alla risposta immunitaria e che, se non trattate, possono avere un esito fatale. Chi contrae il virus viene denominato sieropositivo e vessa in una sitauzione che può durare per anni senza la manifestazione di sintomi particolarmente evidenti.
Nell'universo mediatico intorno al problema dell'Aids, spesso, la sieropositività è rappresentata come una condizione fortemente discriminanate, in cui i malati sono simili ad appestati, emarginati per la loro pericolosità. C'è diffidenza, c'è paura, pur ormai sapendo che l'HIV è un virus a bassa contagiosità, che per trasmettersi ha bisogno di un'elevata concentrazione di particelle virali, condizione che si verifica praticamente soltanto nello scambio ematico diretto o di altre secrezioni (secrezioni genitali, in particolare).
E' proprio sul tema della paura del contagio e della convivenza con una persona sieropositiva, nel tentativo di costruire un rapporto amoroso, che Frederik Peeters delinea un racconto di grande potenza emotiva. Una storia autobiografica, intima e leggera, per un fumetto che scopre e analizza la patina di timore che avvolge l'Aids, non cercando di  ridimensionarla per forza, ma raccontandola con sincerità e semplicità, senza mai abbandonarsi a toni melodrammatici.


Pillole Blu comincia narrando, come se fosse un diario, l'incontro tra Fred e Cati, due normali post-adolescenti svizzeri ad una festa estiva in una bella villa con piscina. Un incontro che per Fred è tanto significativo quanto sfuggente. Cati colpisce l'immagianzione di Fred come un fulmine a ciel sereno e con la stessa velocità di un fulmine se ne va dalla sua vita. 
Passano gli anni e i due, per puro caso, si rincontrano. Fred sta attraversando un periodo difficile e Cati è madre di un bambino di tre anni da accudire, ex moglie di un uomo da dimenticare e con una malattia con cui convivere. Questa malattia è l'Aids e, oltre a far parte della vita di Cati, fa parte anche della vita di suo figlio. Il bimbo, infatti, è affetto dalla malattia fin dalla nascita e sarà costretto ad una serie di cure che lo accompagneranno per tutta la vita: le pillole blu, appunto.
Tra Cati e Fred, in maniera del tutto leggiadra e casuale, sboccerà l'amore e con la nascita di questo sentimento arriverà per Fred anche l'incontro con lo spettro dell'HIV. 
Da questo momento l'opera sarà un delicato affresco esistenziale che ci parla della ricerca di un equilibrio che possa permettere ai due di vivere il loro amore in armonia e serenità, nonostante il timore dell'Aids. 
Peeters mette su carta le sue paure, i brividi provati negli atti quotidiani, ci mostra i passi verso lo smantellamento delle ipocrisie e dei timori infondati che attanagliano la sua mente. 
Il tema della malattia pervade certamente tutta l'opera, ma l'autore si racconta in una pluralità di sfaccettature in cui l'Aids diventa, poco a poco, solo uno dei tanti elementi sulla quale riflettere. Raccontandosi, Peeters scopre se stesso, si interroga, ci fa partecipe delle sue elucubrazioni, dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Entriamo a far parte della complessità di una rete di rapporti in continua ridefinizione. 
Fred è costantemente impegnato a trovare il proprio ruolo nel rapporto amoroso con Cati. Egli, infatti, deve essere "il maschio" su cui la donna può appoggiarsi, deve essere la presenza rassicurante per i suoi momenti bui. Deve inoltre cercare di comprendere il suo ruolo per il bambino di Cati, un figlio che non è il suo e che, nonostante questo, è in naturale ricerca di una figura paterna. Tutti questi elementi si staccano dal tema della malattia, assumendo, di volta in volta, un'autonomia e una pregnanza propria all'interno della narrazione.L'autore racconta tutto con massima semplicità e genuinità, abbandonandosi alle proprie sensazioni e rappresentadole in maniera libera e variegata. Passi poetici, didascalie e allegorie visive fanno di Pillole Blu un'opera ampiamente stratificata anche dal punto di vista dei modi della narrazione. Ecco, allora, che Fred e Cati, seduti sul divano, gallegiano leggeri sulle onde placide di un mare immaginario che li porta lontano o un enorme rinoceronte, bianco e spaesato, che appare all'improvviso alle spalle dei due, simbolo surreale della paura della malattia. A questi flash di grande potenza espressiva, Peeters alterna anche sequenze allegoriche più lunghe, come il lungo dialogo tra Fred e il Mammuth, una sorta di filosofo-psicologo interiore, che cerca di analizzare e fare chiarezza tra i tanti dubbi dell'autore e di mettere ordine negli svariati elementi in gioco nel rapporto tra lui e Cati. 


Passando ora all'aspetto grafico, il tratto di Peeters si caratterizza certamente per la sua semplicità e fluidità volta tutta alla carica espressiva, sopratutto per quanto riguarda le espressioni dei volti e dei gesti dei personaggi. Le figure sono disegnate con linee curvilinee, che a volte appaiono quasi imprecise e sull'orlo di cedere ad accentauzioni più nervose, ma senza mai approdarvi. L'opera, infatti, sembra pervasa visivamente da un'aura di leggerezza che tende all'armonia, pur trasmettendo l'idea di un'inquietudine sempre presente anche se controllata. L'autore evita costantemente l'utilizzo di tinte intermedie, giocando sul contrasto tra bianco e nero. Questa scelta conferisce all'opera un aspetto molto schietto e diretto sia nell'effetto comunicativo sia in quello espressivo.
Per concludere, Pillole Blu, è un gran bel fumetto, capace di affrontare un tema difficile come quello dell'Aids, con un taglio personale e intimo, senza mai cadere in un facile pietismo e in aspetti sensazionalistico-melodrammatici. La narrazione procede come un diario, semplice ed espressiva, senza tuttavia rinunciare ad una stratificazione tematica che, a fine lettura, impressiona per la genuinità con la quale è stata resa. L'aspetto grafico è certamente funzionale alla narrazione e i personaggi di Fred e Cati, con le loro espressioni facciali e i loro gesti, così come le altre figure reali o surreali che popolano l'opera, sono destinate a rimanere a lungo nella testa del lettore. 
Consigliato.




lunedì 8 dicembre 2014

La leggerezza del concreto

Guardando a ritroso nella storia dell'architettura si può notare come ogni epoca abbia un materiale principe. L'800 è sicuramente l'epoca del ferro affiancato naturalmente al vetro, in questo secolo si assiste alla fioritura di grandi opere infrastrutturali e dei grandi palazzi per le esposizioni universali, dal Crystal Palace di R. Paxton alla Galleria delle Macchine di Dutert e Contamin, l'avvento dell'ingegneria cambia in modo radicale la figura dell'architetto ed il suo ruolo.
Il '900, per larga parte si caratterizza invece per l'utilizzo in architettura del cemento, mentre verso la fine del secolo si assiste all'avvento dei materiali plastici e sintetici che assumono un ruolo preponderante nella progettazione. 
In particolare il cemento armato nasce nel 1867 dalle sperimentazioni del giardiniere Joseph Monier, il quale, alla ricerca della ricetta perfetta per realizzare ottimi vasi di fiori da presentare all'esposizione universale parigina dello stesso anno, decide di combinare cemento ed armatura in ferro. Da cosa nasce cosa e da un semplice vaso prese le mosse una vera e propria rivoluzione architettonica e culturale. 
In particolare è il Movimento Moderno ad esaltare le potenzialità fisiche, plastiche ed estetiche del cemento armato. Il cemento permette infatti di scindere gli elementi portanti dai tamponamenti e di gestire i carichi strutturali attraverso l'uso di supporti puntiformi anziché lineari. Questo è il punto di partenza di tutta l'architettura di Le Corbusier, nel cemento armato si trova la base dei 5 punti chiave dell'architettura moderna e della nuova concezione dell'abitare novecentesca. Non rappresenta quindi solo un'innovazione tecnologica ma culturale, chissà se Monier poteva immaginare gli strascichi della sua invenzione nel momento in cui costruiva le sue prime fioriere armate! 
Nonostante l'amore profondo tra gli architetti moderni ed il cemento armato la sperimentazione sul materiale rimane prevalentemente ad un livello superficiale; le proprietà fisiche e meccaniche sono sicuramente le doti più ricercate insieme alla brutalità dell'estetica del materiale e la sua forte contrapposizione con la decorazione liberty, ma la ricerca di una maggiore espressività è decisamente trascurata, così come l'applicazione in altri campi. 
Miguel Fisac rappresenta senza ombra di dubbio un'eccezione, nei suoi progetti l'architetto spagnolo va oltre l'utilizzo del cemento consolidato ricercandone capacità espressive che vanno oltre le prestazioni meccaniche. Nella realizzazione del suo studio a Madrid, Fisac compie un'operazione davvero interessante sostituendo i casseri lignei con il tessuto. Sfrutta al meglio quindi la doppia natura liquida e solida del materiale ottenendo un'effetto ossimorico: durezza e solidità al tatto, morbidezza alla vista. 


M. Fisac, facciata dello studio dell'architetto a Madrid

Recentemente stiamo assistendo ad una vera e propria riscoperta del cemento sopratutto negli interni. 
Abbiamo infatti già citato più volte di giovani artisti che oggi, in un mondo dove la sperimentazione dei nuovi materiali muove verso la chimica e la tendenza al simile o verosimile, riprendono e riscoprono "vecchi materiali" ai quali forse non è stato dato il giusto peso nella storia, materiali che avevano molte più doti nascoste rispetto a quelle che si sono palesate. 
In questo senso ed all'interno di questa ricerca prendono le mosse i progetti di Daniele Stiavetti, architetto livornese che da qualche anno attraverso il connubio tra cemento e tessuto realizza vasi da fiori. 


Daniele Stiavetti, n°7/2013 Singolo Bianco
Quadro: Maria Lorenzelli, ...di notte e di vele, olio su tela

Non a caso troviamo una forte assonanza con il lavoro di Monier, essendo la natura il punto di partenza, e con le sperimentazioni di Fisac sul conferimento ad un materiale solido una volatilità e leggerezza tipica di un tessuto o viceversa di una rigidità ed immobilità ad un materiale sempre in movimento, dipende dal punto di vista con cui preferiamo guardare alle opere. 
Semplici ma fortemente espressivi, questi vasi si collocano in quello che è il limitrofo campo dell'interior design, capace di sfiorare così da vicino le opere artistiche ma mantenere quella funzionalità che rende queste sculture oggetti. 
Una sperimentazione che vede in questa serie di realizzazioni solo un punto di partenza per un'esperienza più ampia capace di coinvolgere altri elementi del panorama interno. L'architetto si vede infatti attualmente impegnato nella realizzazione di un tavolo nel quale il connubio tra tessuto e cemento diventa l'elemento decorativo del piede.
Si scrivono così nuove pagine della storia di un materiale di cui c'è ancora tantissimo da scoprire e non ci resta che starà a vedere dove queste ricerche ci condurranno.


domenica 26 ottobre 2014

Sweet Tooth





La Distopia secondo Jeff Lemire




Quante volte a proposito del nostro presente sentiamo pronunciare la parola “crisi”? Crisi economica, crisi ambientale, crisi sociale, crisi dei valori, crisi delle certezze. Il nostro tempo, quello della post-modernità, della biocibernetica, della liquidità professionale, emotiva e identitaria sembra sempre essere sull’orlo di una catastrofe che nell’immaginario globale assume, di volta in volta, forme e scenari differenti. Ci immaginiamo come potrebbe essere il mondo dopo il crollo totale del nostro sistema economico, quali potrebbero essere gli effetti di una guerra globale, quali conseguenze potrebbe portare la progressiva innervazione tecnica, soprattutto dal punto di vista riproduttivo e identitario, cosa potrebbe succedere all’esaurimento delle risorse energetiche del pianeta, quali potrebbero essere gli effetti di un’epidemia globale. Insomma, credo si possa dire che, attualmente, la nostra mente viva a stretto contatto con un ampia gamma di “distopie” e che, date reali possibilità e situazioni, queste siano forse più vicine e immaginabili rispetto al passato.
Alla luce di tutto ciò non mi sorprende che anche all’interno della produzione mediale, dalla letteratura al cinema, dai fumetti ai videogiochi, la tematica distopica stia attualmente avendo un gran numero di trasposizioni, incarnazioni ed interpretazioni. Il presente è incerto, i rischi sono tanti e il futuro fa paura in molti modi, stimolando così la macchina letale dell’immaginazione.
Al fascino spaventoso di questo gioco di fantasia non è stato certamente indifferente Jeff Lemire che con la sua serie Sweet Tooth, pubblicata in Italia da Rw Lion e arrivata ad ora al suo quarto volume, inserendosi a pieno nel solco di opere letterarie come “L’ombra dello scorpione” di King o “La Strada” di Cormac McCarthy, mette in scena una nuova visione post-apocalittica del destino dell’umanità.





L’incipit dell’opera di Lemire è semplice ed efficace. Fin dalle prime pagine scopriamo che un’ epidemia, l’ “Afflizione”, ha sterminato miliardi di persone e gli unici bambini nati da allora sono una razza ibrida tra uomini e animali. Uno di questi è il giovane Gus, un ragazzino metà umano metà cervo, che dopo l’epidemia ha sempre vissuto al sicuro con suo padre in una piccola casa nel bosco. Gus non si è mai allontanato da quel luogo e il padre lo ha sempre protetto. Bisogna infatti sapere che i bambini come Gus sono gli unici esseri, ad avere una traccia di umanità,  refrattari al virus dell’Afflizione e per questo sono ricercati dai cacciatori di taglie. Tutti vogliono scoprire quale sia il segreto della loro immunità. Il padre di Gus fa di tutto per tenere suo figlio nascosto ai pericoli del mondo, ma egli deve lottare contro l’Afflizione dentro di lui che, inesorabilmente, lo colpisce portandolo alla morte. Il ragazzo-cervo si ritrova dunque da solo nel bosco, fino a quando alcuni cacciatori non lo troveranno. Tutto sembra perduto per il povero Gus, ormai braccato, quando all’improvviso appare Jepperd, un uomo enorme e dai modi violenti, che mette fuori gioco i cacciatori e si propone di aiutare il ragazzo a raggiungere “La riserva” , un posto dove gli ibridi possono vivere in tranquillità. Quale sarà il destino di Gus? La Riserva esisterà davvero o sarà solo un inganno? Chi è Jepperd? Perché vuole aiutare Gus?


Sweet Tooth è un’opera dai toni cupi, malinconici, grotteschi e a tratti bizzarri. Al contrario di molte vicende narrative che partono dagli ambienti cittadini per delineare la propria distopia, Lemire parte dall’America rurale. Non ci troviamo dunque di fronte ad una metropoli in rovina, assediata dalle erbacce e dai rottami, dove gruppi di sopravvissuti cercano di sfuggire al contagio e di sopravvivere con la forza, ma in un bosco, dove il nostro protagonista vive al riparo da ciò tutto ciò che è successo, ignaro della tragedia e immerso nella visione mistico-religiosa inculcatagli dal padre. Tuttavia, questa non è una storia dai toni dolci e il ragazzo è costretto ben presto ad uscire dall’ovattato rifugio del padre per affrontare i pericoli del mondo. Lemire attraverso immagini d’impatto e testi intimisti, dotati di grande lirismo ed efficacia, ci mostra da subito l’ingenuità di Gus, bambino-ibrido, alle prese con un universo vastissimo, fatto di personaggi mostruosi ai suoi occhi, di cui è difficile giudicare le vere intenzioni. Eppure il ragazzo non sembra mosso dalla paura, ma da una timida curiosità perché, alla fine, “il mondo non è così cattivo come diceva papà” o forse è ancora più cattivo, ma non c’è modo per dirlo se non quello di provare a viverlo. La vicenda di Gus assume quindi da subito le sfumature di un viaggio di formazione, uno scontro con la realtà che lo porterà sicuramente a crescere e a confrontarsi con se stesso e con tutte le credenze maturate nella sua infanzia. 


Insieme alla scelta di far partire la vicenda dall’America rurale storicamente sede, sia in lettura sia in cinematografia, di torbide e violente pulsioni nascoste sotto la patina di semplicità e genuinità, si trova la trovata narrativa dei bambini-ibridi, stratagemma sicuramente interessante e ricco di rimandi al nostro presente. Ad una prima lettura si può sicuramente dire che Lemire ci mostra subito il tema classico dell’ingenuità dei più piccoli che può essere sfruttata da individui senza scrupoli. Non a caso la prima volta che Gus si allontanerà dal rifugio paterno sarà per raccogliere una barretta di cioccolato e Jepperd, il suo enigmatico “salvatore”, cercherà di rompere il ghiaccio tra loro proprio offrendogli un’altra barretta di cioccolato. E’ lo stilema del dolciume che attira i più piccoli, l’offerta innocente che può nascondere un pericolo che agli occhi dei bambini è inimmaginabile. Tuttavia, “l’ibrido”, non solo accentua con il bizzarro il tratto di perifericità alla società adulta già presente nel bambino, ma ci porta a ragionare anche su altre tematiche. Prima fra tutte, ovviamente, quella dell’identità di genere. L’idea di modificazioni e innesti genetici che possano mettere in crisi le storiche divisioni di generi è ormai un terreno di riflessione molto fertile, soprattutto dopo gli ultimi enormi sviluppi della biotecnologia. L’ibrido è quindi l’immagine di un futuro che va verso una progressiva innervazione tecnologica e Lemire, andando oltre l’immagine del cyborg “meccanico”, ci mostra il risultato di un ibridazione profonda, sottocutanea, genetica. Ecco che le immagini mitologiche degli ibridi animali acquisiscono ora un’ aura sempre meno metaforica e sempre più reale data dalle reali possibilità della biotecnologia. E’ una distopia nella distopia, è un’umanità devastata che vede già l’alba di un nuovo corso, una strada che forse la porterà ad essere tutt’altro da quello che era prima. Inoltre, il fatto che gli ibridi in Sweet Tooth siano “uomini-animali”, è sicuramente una connessione forte anche alla tematica ambientale e ad una storia che, dopo la catastrofe, sembra virare verso una condizione di maggior primordialità attraverso un avvicinamento al mondo animale.


Passando ora agli aspetti più formali legati all’impostazione narrativa dell’opera si può dire che Lemire, come di consueto, imposta le tavole con un forte taglio cinematografico, utilizzando le immagini come se al posto di una matita avesse in mano una cinepresa. Primi piani, zoom, carrellate veloci, stacchi improvvisi. Tutto questo si adatta perfettamente con la molteplicità dei ritmi narrativi che l’autore riesce sempre a coordinare in modo sapiente. Si passa, infatti, da scene intimiste e riflessive a sequenze d’azione estremamente concitate, dove l’autore riesce a far esplodere una violenza improvvisa.
Parlando ora dell’aspetto prettamente grafico, il tratto dell’autore è grezzo e nervoso, a prima vista abbozzato e quasi sgradevole, ma, in realtà, estremamente espressivo ed efficace. Jeff Lemire si concentra spesso, come in altre opere quali Essex County o Il Saldatore Subacqueo, sull’espressione facciali dei suoi personaggi, dando estrema attenzione agli sguardi e ai particolari, intrecciando relazioni, connotazioni e confronti dalle quali emergono continuamente una pluralità di vibrazioni emotive. I colori di Villarubia contribuiscono a dare al fumetto toni crepuscolari per le parti più intime, lanciandosi poi in improvvise esplosioni nelle sequenze action con inserti acidi di rossi, gialli e arancioni. Sangue, fuoco, pugni, mazzate, fuoco e pistole che sparano.
In conclusione, Sweet Tooth è un’opera estremamente valida. Per ora ho letto solo il primo volume, ma posso già dire di esserne stato colpito, sia per quanto riguarda la narrazione, i contenuti e lo stile grafico. Jeff Lemire si riconferma uno sceneggiatore di tutto rispetto e un autore da un tratto unico e personalissimo. L’unico appunto degno di nota, a mio parere, è la non eccelsa edizione della Lion, con una qualità di stampa appena sufficiente, tuttavia, a parte questo, Sweet Tooth merita certamente di essere letto. Consigliato.